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mercoledì 31 marzo 2010
Calcio: Champions League, Bayern-Manchester United 2-1 Olympique Lione-Bordeaux 3-1
Olympique Lione-Bordeaux 3-1. E' finita cosi' l'andata dei quarti di finale di Champions League. Doppietta di Lisandro Lopez, in gol al 10' del primo tempo, al 32' della ripresa ha trasformato un rigore consolidando il vantaggio del Lione.
E' andata ai tedeschi del Bayern Monaco l'andata dei quarti di finale di Champions League contro il Manchester United. I padroni di casa si sono imposti per 2-1.
martedì 30 marzo 2010
Champions league: Inter-Cska, arbitra inglese Webb
E' l'inglese Howard Webb l'arbitro designato dall'Uefa per la gara di andata dei quarti di finale di Champions League tra Inter e Cska Mosca, in programma mercoledi' a San Siro alle 20.45. L'altra sfida tra Arsenal e Barcellona sara' diretta dallo svizzero Busacca. Per le gare di domani, l'arbitro belga Frank De Bleeckere dirige Bayern-Manchester United, mentre Lione-Bordeaux sara' arbitrata dal tedesco Brych.
Maradona operato al viso per morso cane
Maradona e' stato operato d'urgenza la scorsa notte dopo essere stato morso al viso da uno dei suoi cani: lo dicono fonti locali.
L'allenatore della nazionale argentina uscira' nelle prossime ore dalla clinica dove e' stato ricoverato. L'incidente e' avvenuto nella sua abitazione, hanno aggiunto le fonti, precisando che Diego e' stato subito portato alla clinica 'de los Arcos' del quartiere Palermo di Buenos Aires, dove e' stato medicato e quindi operato.
De Laurentiis:per Europa temo il Palermo
Palermo, Juventus e Sampdoria sono tre squadre molto ben attrezzate, ma quella che sta piu' in forma in questo momento e' il Palermo.Lo dice il patron del Napoli, Aurelio De Laurentiis. ''La Champions? Noi adesso pensiamo alla Lazio. Reja vorra' dare sfoggio di tutta la sua grande professionalita'. De Laurentiis parla poi di Lavezzi confermando che nel contratto dell'argentino (scadenza 2015) c'e' una clausola rescissoria. 'Ma nella vita contano anche i rapporti personali', sottolinea.
lunedì 29 marzo 2010
Serie A: Milan-Lazio 1-1
Milan-Lazio 1-1 nel posticipo della 31/a giornata di A. Borriello (rig.) 18', Lichtsteiner 32'.
Rossoneri falliscono l'aggancio alla Roma. Non nitido il fallo di Kolarov su Flamini, Tagliavento concede il rigore che Borriello trasforma malgrado Muslera intuisca. La Lazio reagisce e Lichtsteiner approfitta di un rimpallo fortuito in area per battere Dida da due passi. Milan piu' convinto nella ripresa. Traversa di Antonini al 54'. Buone occasioni per Dias e Abate. Milan a -3 dall'Inter.
domenica 28 marzo 2010
Serie A: la Juventus torna a vincere
La Juve torna a vincere e batte 2-1 l'Atalanta nel 31/o turno di Serie A. Corrono Napoli e Fiorentina. Pari Samp e in coda di Siena e Livorno.
Chievo-Parma 0-0; Fiorentina-Udinese 4-1 (Vargas, Pepe, Gilardino, Santana, Jovetic); Juventus-Atalanta 2-1 (Del Piero, Amoruso, Melo); Livorno-Bari 1-1 (Allegretti, Tavano); Napoli-Catania 1-0 (Cannavaro); Sampdoria-Cagliari 1-1 (Guberti, Nene'); Siena-Genoa 0-0. Posticipo Milan-Lazio.
La Juventus e il Napoli agganciano la Sampdoria al quinto posto. Risale la Fiorentina. In coda pareggiano Livorno e Siena. Classifica della Serie A (31/a giornata). Inter 63, Roma 62, Milan 59, Palermo 51, Sampdoria, Napoli, Juventus 48, Genoa, Fiorentina 44, Bari 43, Parma 42, Cagliari 39, Chievo 38, Catania, Bologna 35, Lazio, Udinese 32, Atalanta 28, Siena 26, Livorno 25.
napoli-catania 1-0
Non è stata una gara semplice per gli azzurri e il risultato la dice lunga sull’andamento della stessa. L’ 1-0 finale premia gli uomini di Mazzarri, e la grande volontà dimostrata. La rete ad inizio ripresa di Paolo Cannavaro regala tre punti d’oro al Napoli adesso a quota 48 in classifica, in piena zona Europa. Del Catania dobbiamo dire che si è mosso bene in campo e ha badato più a difendere che ad offendere in avanti.
Walter Mazzarri, allenatore del Napoli, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni : “Al di là della classifica era una prova importante per noi, una prova di maturità dopo la grande partita contro la Juventus. Il Catania è una squadra che sta facendo molto bene nel girone di ritorno, ha realizzato 10 risultati utili su 11, è una squadra forte. Abbiamo fatto benissimo. Quando si gioca dopo soli due giorni si può solo responsabilizzare i giocatori. Nessuno mi ha detto che non se la sentiva e me l’hanno dimostrato sul campo. Abbiamo fatto ancora meglio con il Catania. Cannavaro in Nazionale? Paolo Cannavaro sta facendo un campionato sopra le righe. Quando sono arrivato subiva il momento di scoramento del Napoli e lui lo sentiva in modo particolare essendo napoletano. Era troppo prudente, credo di avergli dato sicurezza. Sta giocando bene, è completo, gioca bene sia di testa che di piede. Questa partita era una tappa fondamentale perchè è difficile ricaricarsi dopo soli due giorni dalla partita contro la Juventus. Inoltre a Napoli c’è pressione e poi il Catania è terzo nel girone di ritorno per punti fatti, è una squadra di valore, è in forma. Era una partita rischiosa. Bisogna dimstrare continuità, c’è stato un segnale di maturità da parte di tutti i giocatori, non a caso ho confermato in campo tutti gli 11 che hanno giocato contro la Juventus. Ora penso alla sfida con la Lazio. Saranno 7 finali. Campagnaro sulla sinistra? Quando sta bene e’ un giocatore completo, sta facendo un grande campionato. Se firmo per il 5° posto? Non cado in questo tranello”.
Paolo Cannavaro, difensore del Napoli, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “Il mio gol? Non è importante chi segna, noi pensiamo sempre alla squadra. Ci servivano i tre punti e li abbiamo ottenuti. Ci vorrà dedizione al lavoro e un grande impegno fino alla fine. Al di là di chi gioca il mister ha dimostato che siamo una grande squadra. I Mondiali? La speranza c’è sempre. Sto seguendo la strada giusta, spero di proseguirla fino alla fine. Il gol lo dedico a tutti i tifosi napoletani. La Champions? L’Europa League gia’ sarebbe un traguardo importante. Non si puo’ descrivere la gioia del gol. La Nazionale? Ripeto: io continuo a sperare. Penso al risultato della squadra. Contiamo in un finale di stagione esaltante”.
Anche Riccardo Bigon, d.s. del Napoli, ha rilasciato alcune dichiarazioni: “Quagliarella ha avuto piu’ spazi. Stiamo avendo piu’ varchi con la nuova soluzione tattica. Serve l’aiuto tra tutti i reparti. La classifica e’ corta. C’e’ la Fiorentina che sta risalendo. Guardiamo la classifica fino ad un certo punto, perche’ serve dare il massimo gara dopo gara. Pochi spettatori? Non e’ facile avere tanti spettatori nel giro di 3 giorni. I budget delle famiglie non sono eccessivi. Una promozione col Parma? Non me ne occupo io del marketing e del merchandising. Il mercato? Abbiamo osservatori su tutte le partite. Vediamo dove arriviamo quest’anno: conta molto quest’aspetto. Non dobbiamo montarci la testa, ne’ esagerare con gli obiettivi. Dipende dal numero di partite che andremo ad affrontare. In chiave Champions il budget che ci potrebbe arrivare e’ super importante. Guardate la Juve: se non va in Champions ci sono 20 milioni di euro in meno da investire sul mercato. Credo che i viola arriveranno in Europa. Il Palermo e’ una squadra forte, ma noi guardiamo alla nostra squadra”.
Alessandro Lugli
verona campione d'italia 1985
PROLOGO
Che cosa ci fanno Platini e Maradona, Junior e Rumenigge, Falçao e Zico a bocca asciutta e con il naso all'insù a guardare come una provinciale gli soffia lo scudetto? Nel campionato più bello e ricco del mondo si impongono i muscoli pronunciati dei ragazzi di Verona, sorprendendo i critici che di calcio sanno morte e miracoli, che nei paginoni estivi pronosticano sempre Juve, Inter, Roma. Invece, come nei romanzi alla Agatha Christie, l'assassino è quello che non sospetti.
Il successo della banda Bagnoli parte da lontano, dalla promozione in Serie A di qualche anno prima, dalla conferma di squadra forte e divertente già al primo impatto con i big del campionato, dalla continuità con il lavoro svolto, impreziosito dall'entusiasmo del nuovo gruppo che portò a cambiare gradualmente una formazione che, pur dando spettacolo e ottenendo discreti risultati, rimaneva spesso vittima della propria inesperienza e di qualche inevitabile ingenuità. Ma la fretta, intesa come paranoia sportiva, è un concetto che non si addice a una città tranquilla e riflessiva come Verona.
Proprio come quei silenzi del nasone imbronciato, Osvaldo Bagnoli, tecnico contrario a ogni esasperazione, a prima vista distante anni luce dal mondo del pallone. Ma anche gli anni della provincia, delle squadre forti loro malgrado, del Verona dei miracoli. Umile, lavoratore, che non corre dietro ai tanti idoli o divi di cui si nutrono le grandi piazze della Penisola. Rosa corta, titolari eclettici, duttilità tattica, logica o parsimonia societaria che dir si voglia. Come punto di partenza non è male per chi fa del-l'arte di sapersi arrangiare un equilibrato modo di vita.
Celestino Guidotti, presidente dalle capacità finanziarie asincrone rispetto ai colleghi che puntano in alto, diede, con l'aiuto del Ds Mascetti, i ritocchi giusti a una squadra già ben costruita negli anni. Nessuna spesa folle, rigore sulle esigenze del disegno tattico di Bagnoli e tanti stimoli da distribuire tra giocatori con la giusta voglia di riscatto e di affermazione.
L'ALCHIMISTA OSVALDO
Gli arrivi di Briegel ed Elkjaer e delle giovani promesse Marangon, Donà e Turchetta furono tesi a dare esperienza, dinamicità e solidità tecnico-atletica. Completamento più che rivoluzione. Elkjaer, bomber potente, arrivò a sostituire il folletto Iorio, passato alla Roma, diventando il completamento dell'altro attaccante Nanu Galderisi, piccoletto imprevedibile negli ultimi sedici metri. Il bisonte danese, accreditato dalle buone stagioni in Belgio e dai gol segnati con la sua Nazionale, divenne ben presto l'idolo di Verona.
Fu strappato alla concorrenza di società come Real Madrid e Milan grazie ai blitz dell'amministratore Rangogni, quando per il centravanti vicecannoniere agli Europei, senza l'acume manageriale e il tempismo, si sarebbe scatenata una vera e propria asta al rialzo. Bizzarro, a volte incostante, ma travolgente come la sua falcata e i suoi tiri che ricordavano le gesta di Gigi Riva.
Anche la sua fama di provocatore un po' sbruffone fuori dal campo, con i suoi «Passerò alla storia»lo rese un protagonista particolare delle pagine dei giornali; ma in campo, dove si trasformava, era l'esempio della grinta e dello spirito di squadra. Il suo portamento alquanto sgraziato, da lavotatore stanco a fine giornata, saranno sempre l'immagine di quel meraviglioso Verona.
«Piedi grossi e cervello fino»si diceva per gli uomini pratici e onesti, e nessuna definizione rende più giustizia al tenebroso Bagnoli. Allenatore per caso, uomo semplice ma dalle idee chiare, ex giocatore a tutto campo, ostile alle parole fortuna e sfortuna, sincero come un bicchiere di Pinot. L'unica circostanza fortunata, ammise lui stesso, fu la scelta di diventare allenatore. Un uomo normalissimo, dunque. Anche nelle scelte di campo.
Molti lo chiamavano «Lo svizzero»per la meticolosità e la precisione con cui studiava ogni dettaglio tattico, per come preparava la partita. E anche il suo atteggiamento sulla panchina, pronto a sfuriare e a colpire ogni oggetto alla sua vista, lo rendeva semplicemente se stesso, gustoso come il Sangiovese e la piadina che i suoi gusti culinari avevano avuto in eredità dall'esperienza cesenate.
Si è costruito tecnicamente in realtà adatte alla sua personalità come Como, Fano, Rimini e Cesena, appunto, ma il suo grande amore professionale il Settore giovanile, la Primavera del Como, dove l'ambiente ricorda i sacrifici per diventare qualcuno, quando a fine allenamento bisogna fare la coda per lavare le scarpe nei lavandini.
È arrivato a Verona dopo la promozione in A col Cesena, anche sulle sponde dell'Adige il diritto alla massima serie. Poi il campionato '83-84 con il meritato ingresso in Coppa Uefa. affidava alla miscela di esperienza dei due stranieri, di Volpati, Marangon, Tricella alla voglia di affermarsi di Di Gennaro, Bruni, Galderisi. alle tante motivazioni di questi giocatori si aggiungono la "rabbia" di Pierino Fanna, Fontolan del portierone Garella, i risultati, a un'attenta analisi, non sono un caso. ,
OGNI TESSERA AL SUO POSTO
Lo scacchiere tattico e il modulo di gioco si inseriscono perfettamente nel calcio "all'italiana ", sulla scia della disposizione in campo della Juventus o della Nazionale: un libero portato a costruire il gioco, marcatori arcigni e attaccati ai garetti, terzino fluidificante, un centrocampo abile nella rottura e nella manovra, un tornante di raccordo tra i reparti e due punte dalle caratteristiche tecnico-atletiche dissimili. Impostata così, la formazione scaligera aveva una grande forza d'impatto nel ribaltamento dell'azione, soprattutto con le fughe in contropiede di Fanna e Briegel e gli sganciamenti improvvisi di Tricella.
Ma in occasione di partite contro avversarie più deboli, soprattutto al "Bentegodi", il Verona era in grado di schiacciare gli avversari nella loro metà campo evidenziando le capacità tecniche dei singoli. Decisivo, per gli schemi della squadra, fu l'inserimento del tedescone Briegel, esuberante jolly dal passo di locomotiva, poderoso negli stacchi aerei e soprattutto instancabile faticatore. Continuo nel rendimento, sapeva adattarsi alla rudezza dei ruoli richiesti dalla difesa e alle giocate da attaccante aggiunto.
Sinistro preciso, nonostante una tecnica individuale non proprio sopraffina, senso innato della posizione e propensione al gol lo facevano un giocatore completo e invidiato a Bagnoli da tutti i tecnici. "Turbo" Fanna doveva riscattare la sua esperienza luci e ombre a Torino, determinata probabilmente dalla frenesia con cui voleva imporsi a tutti i costi. A Verona, in una città calda ma discreta, poteva ripartire da zero e ritrovare l'entusiasmo, tornando a svariare sulle fasce facendo ammattire i terzini di tutto il campionato.
Il gruppo storico (Volpati, Tricella e Di Gennaro), garantiva solidità ed equilibrio nello spogliatoio. L'erede azzurro di Scirea, il capitano Tricella, era il punto di riferimento della squadra e dell'allenatore. Elegante, la faccia pulita da studente, mingherlino e timido, non dava apparentemente l'impressione di poter essere un lottatore. Fu uno scarto dell'Inter, ma già dalla prima stagione in gialloblu dimostrò di saperci fare: quel suo fisico da ragazzino in via di sviluppo era solo uno scherzo ai più scettici.
Un allenatore ha sempre un uomo in campo su cui fare affidamento, un giocatore che "legge" le partite meglio e prima degli altri, che durante la settimana tiene unito il gruppo. Domenico Volpati era tutto questo. E non a caso, l'asse difesa-centrocampo era affidato al duo Tricella-Volpati, giusta dose di valori tecnici e tempera-mentali, guida della squadra nei momenti di difficoltà. Alternava, a seconda delle esigenze (l'infortunio a Sacchetti), il ruolo di centrocampista di interdizione a quello di difensore puro, garantendo comunque un altissimo rendimento.
Le critiche iniziali a Bagnoli, per l'insistenza con cui utilizzava il trentaquattrenne, suo dichiarato "pallino", si dimostrarono senza alcun fondamento. Le traiettorie impossibili e i colpi di genio sono da sempre prerogative dei grandi numeri 10. A Verona, la fantasia e l'essenza del pallone sono tutt'uno col nome di Antonio Di Gennaro, regista dal calcio sopraffino e dalla bordata imprevedibile.
Il miglior centrocampista di quel campionato, nazionale inamovibile, assicurava l'imprevedibilità e le geometrie necessarie per mandare in gol il folletto Galderisi e l'ariete Elkjaer. Toscano irriverente e istrione, autore di scherzi da spogliatoio, ma pronto a tornare coi piedi per terra con i suoi occhi profondi e lo sguardo intenso di chi fa vedere che ha già capito tutto.
VIVERE UNA FAVOLA
Fra i giocatori gialloblu c'era un furetto che il tricolore se l'era cucito sulla maglia già due volte a Torino con la Juventus. Giuseppe Galderisi, un metro e settanta di grinta e tecnica che gli permisero di "timbrare" il cartellino del gol undici volte: in acrobazia, di destro, di sinistro, su rigore e, udite udite, con bellissimi gol di testa. Rapido, di grande coraggio agonistico, Nanù si impose grazie all'umiltà che già ai tempi della Juve lo aveva reso protagonista in un gruppo di mostri sacri, combattendo e sgusciando tra difensori spesso rudi e sproporzionatamente grandi ai suoi occhi.
Ma per una volta, anche Galderisi si sentiva protetto in campo, perché un bisonte, con cui poter dividere gol e botte, questa volta era il suo compagno di reparto. Ragazzo simpaticissimo, appassionato di musica leggera, incise anche alcune canzoni ispirandosi a Renato Zero. In particolare, la canzone "Sto correndo" (uscita dopo la sconfitta con il Torino) gli fu sicuramente di buon auspicio, e chissà se in quella melodia la fine della corsa non fosse proprio il traguardo tricolore.
IL CAMPIONATO: SCACCO AL RE
L'avventura ebbe inizio il 16 settembre dell'84, con il 3-1 inflitto al Napoli di re Diego. «Siamo partiti col piede giusto»sentenziò il modesto Bagnoli. Ma forse l'idea di allenare una grande squadra lo investì da subito. Da allora, la bandiera del Verona sarà sempre sul punto più alto del campionato, garrendo per tutti i trenta turni.
Si alterneranno come antagoniste tutte le grandi e qualche outsider: dall'Inter al Torino, dalla Sampdoria alla presenza sempre inquietante della Juventus. Dopo Maradona, un'altra partita di cartello a Verona sarà con i campioni d'Italia di Platini: Galderisi-Elkjaer e la Vecchia Signora esce dal "Bentegodi" lasciando un ipotetico passaggio di testimone. Ma è ancora molto presto per immaginare il futuro.
La trasferta a Torino, sponda granata, rivela la forza dei gialloblù, che pur presentando una formazione rimaneggiata sbancano il "Comunale" con Briegel e Marangon dopo il momentaneo pareggio di Dossena, rivale di Di Gennaro per il ruolo di regista in maglia azzurra. La prima sconfitta arriva l'ultima di andata, a casa di una pericolante, l'Avellino, che aiutata da un campo al limite della praticabilità e dalle assenze di Galderisi ed Elkjaer si impone su uno spento Verona.
Si chiude il girone d'andata col Verona primo, grazie ai soli sei gol subiti, ma l'Inter è pronta, a due sole lunghezze, per l'aggancio. Ogni annata storica ha la sua partita epocale, soprattutto se è una sfida molto sentita come Udinese-Verona. Sopra di tre gol, i ragazzi di Bagnoli si fanno raggiungere da Zico e compagni e il campionato sembra poter sfuggire come il pallone dalle mani di Garella, che non ne prende una. Ma qui viene fuori l'esperienza e la maturità del gruppo, la voglia di andare contro il destino e gli errori, e la coppia straniera venuta dal Nord porta il punteggio sul 3-5. L'Inter pareggia ad Avellino e il Verona torna solo in vetta alla classifica.
Siamo alla diciottesima, alla prossima il "Bentegodi" ospita la partitissima con i nerazzurri. La mattina del 17 febbraio, sei giocatori del Verona hanno la febbre. Tutto volge al peggio. In quelle condizioni, Bagnoli chiude la saracinesca alla porta di Garella impostando una partita di contenimento.
«È la fine» pensano in molti, quando al 39' Altobelli porta in vantaggio la formazione nerazzurra. Tutti negli spogliatoi alla fine del primo tempo a recuperare forze e a bere litri di the caldo. E proprio uno degli influenzati, l'indistruttibile Briegel, diventa imprendibile per i nerazzurri e in tuffo di testa pareggia.
Udine e la Supersfida con l'Inter avevano dato qualche segnale di cedimento, ma la prova di maturità dei ragazzi di Verona giunge a Torino contro la sempre temibile Juventus, dove un grandissimo gol di Di Gennaro pareggia la rete di Briaschi. Bagnoli è in silenzio stampa, ma c'è già chi giura che alla fine sarà lui a poter dire l'ultima. Il Verona è sempre primo e gioca veramente molto bene.
E anche quando si gioca male e si vince, qualcosa entra nella testa delle avversarie, e chissà che cosa hanno pensato le inseguitrici vedendo la risicata vittoria casalinga del Verona contro la rimaneggiata Roma.
Un Fanna incontenibile, che fa la differenza, e un Elkjaer opportunista, chiudono la sofferta partita. A Firenze, il Verona torna ai suoi standard di rendimento e di gioco, con uno strepitoso Galderisi che ne fa due e regala il 3-1 ai suoi. Anche Bagnoli torna a parlare. Se non è un segno questo...
Inatteso e preoccupante arriva il secondo scivolone stagionale, in casa contro il Torino di Serena e Schachner. Ora le inseguitrici sono a meno quattro e domenica San Siro rossonera aspetta i gialloblù. È uno 0-0 all'antica, con la squadra chiusa e pronta alla rimessa, degna di una provinciale assatanata in cerca di punti salvezza.
Non essere la Juventus o l'Inter è quel vantaggio più o meno consapevole che ti dà la possibilità di poter cambiar pelle a seconda delle partite e delle esigenze senza che nessuno gridi allo scandalo. Il gioco brioso si è perso un po' per strada, ma la squadra tiene botta con la vittoria sulla Lazio e il pareggio casalingo con il Como. A Bergamo il sogno si fa realtà con una giornata di anticipo, e già plana sugli stadi delle grandi d'Europa a chiedere l'ospitalità accreditata di solito alle formazioni di metropoli ancora a chiedersi «Ma come hanno fatto?».
MOMENTI DI CURVA
Tutti i protagonisti di quel Verona hanno avuto il giusto riconoscimento esaltando le fantasie dei tifosi, che non hanno lasciato cadere la possibilità di sbizzarirsi con i soprannomi e gli appellativi; così Galderisi diventò "puffo al tritolo", Elkjaer "il cenerentolo" per via del gol segnato (perdendo la scarpa) alla Juventus, Fontolan "la quercia", Garella "Garellik" e Ferroni "il gladiatore". Con una squadra dalla tale presentazione, le avversarie non potevano che rimanere imbarazzate coi loro nomi troppo scontati per essere all'altezza e per far sognare. Anche il pubblico ha dato il suo contributo con le coreografie colorate e le feste, le trasferte di massa e i bandieroni presenti in tutti gli stadi. Ovunque (un club di tifosi a Beirut!) il gialloblù ha fatto proseliti, portando in giro per l'Italia la "matana", la cosiddetta follia veronese, coraggiosa nella sua saggezza, con quel sospetto di indifferenza e di fine teatralità che ne ha fatto un'originale esordiente del successo.
UN RAPIDO DECLINO
Ma le vicissitudini del calcio scaligero, smaltita la sbornia scudetto, saranno contraddistinte più da ombre che da luci; soprattutto non si raggiungeranno più traguardi tanto ambiziosi come nell'85. Iquattro campionati successivi sono vissuti in un anonimo centro della classifica; sotto la presidenza Chiampan (subentrato nel frattempo a Guidoni), le scelte societarie si rivelano sbagliate: ingaggi favolosi e spese folli. Come si dice, il Verona fa il passo più lungo della gamba, mangiandosi i ricavi dello scudetto e della Coppa dei Campioni. Gli Anni 90 sono un calvario terribile, per i gialloblù. Arriva la retrocessione in Serie B, la società è allo sbando, le rivoluzioni tecniche creano destabilizzanti perdite di identità, Verona è la brutta copia di se stessa. Ma la battaglia più dura è tra avvocati, giudici e documenti, quando il Tribunale di Verona decreta il fallimento della società e nel 1992 Chiampan è raggiunto da un ordine di custodia cautelare. E' la fine dell'epopea scudetto, ma il sogno del calcio a Verona resterà sempre vivo sino ai giorni nostri.
roma scudetto 1983
PROLOGO
Siamo nell'estate del 1979. La Roma riparte, dopo la presidenza Anzalone, con Dino Viola dietro la scrivania e il Barone Nils Liedholm a dirigere un gruppo dalle discrete potenzialità.
Roma è città caotica, sventrata dai residui dei boom edilizio, la passione della gente soffoca.
La tranquillità e l'aria salubre sono i primi passi per la rifondazione.
Val Pusterla, Brunico e dintorni. Nel silenzio della montagna, anche l'italiano cantilenante del mister trova la sua musicalità e la sua comprensione. La parola più controversa e meno chiara, "zona", che nel vocabolario di Liedholm è sinonimo di razionalità ed equilibrio, dà il via ad un progetto che risulterà chiarissimo. Turone, neoacquisto, fa coppia con il confermatissimo Santarini al centro della difesa, mentre la ragnatela di centrocampo è formata dall'asse Di Bartolomei - Ancelotti.
Davanti, Bruno Conti inventa e Pruzzo realizza. Semplice, efficace, ma non ancora vincente.
E' un calcio di buon livello, senza troppo pressing e fuorigioco, funzionale e divertente, però le squadre del nord hanno un'altro passo. Non è facile per Roma e la Roma risalire la china.
Alla fine. però, arriva un settimo posto e soprattutto la conquista della Coppa Italia ai danni del Torino.
RITORNO IN ALTA QUOTA
Il calcio italiano riapre le frontiere agli stranieri. Nella villa di Viola, seduto a tavola, c'è un ospite d'eccezione: Zico, il miglior giocatore brasiliano del momento. Roma sogna il grande colpo, ma il Barone ha altre intenzioni per fare il salto di qualità.
Fa acquistare un certo Falcão, da poco conosciuto al grande pubblico anche se già affermatissimo in Brasile.
Il lungagnone dalla pelle chiara sembra il classico acquisto al risparmio, difficile da accettare dopo il mancato sogno Zico.
I tifosi sono scettici, la stagione non è ancora iniziata e già si ironizza su questa squadra che «faceva ben sperare».
Ma la formazione ingrana, raccoglie convincenti successi in giro per l'Italia e il tecnico, con la sua zona lenta, imbriglia gli avversari e sino alla fine si gioca lo scudetto in un avvincente testa a testa con la Juventus.
Al Comunale di Torino, lo scontro diretto decide il campionato; un punto separa le contendenti a favore dei bianconeri.
L'arbitro, se lo ricordano bene tutti, è Bergamo di Livorno.
Un traversone taglia l'area, Turone si avventa sul pallone e segna. Nemmeno il tempo di esultare e il colore giallo della bandierina rispedisce nelle gole l'urlo del gol.
Moviole e processi confermano la validità del gol, ma lo scudetto va alla Juventus.
La Roma si accontenta ancora una volta della Coppa Italia, ma prepara la sfida per il futuro.
L'anno seguente arriva terza, a causa di qualche infortunio dei giocatori chiave, ma nel frattempo esplode Sebastiano Nela, rivelazione del calcio italiano.
L'ANNO DELLE MERAVIGLIE
La società si rende conto che per rimanere a certi livelli è necessaria una "rosa" piuttosto folta, così Viola e Liedholm pescano nel campionato italiano i giocatori con le motivazioni giuste. I presupposti per il salto di qualità ci sono e Vierchowod, Iorio, Maldera, Valigi, Nappi e Prohaska sono le novità su cui poggiano gli ambiziosi progetti societari.
Il pubblico, figlio della sua grande passione, ancora una volta è perplesso: a Torino arrivano Platini e Boniek, la Fiorentina si affida a Bertoni, mentre la Roma prende uno scarto austriaco dell'Inter, che dopo la cessione di Prohaska si assicura Hansi Muller.
Ma l'avventura comincia bene, la nebbia dei dubbi si dirada al sole di Cagliari: è uno splendido 3-1 per i giallorossi. Se il buongiorno si vede dal mattino...
Alla seconda arriva a Roma il Verona, la più pericolosa outsider del campionato, e dopo una partita sofferta Di Bartolomei segna su rigore allo scadere.
La città comincia a credere nel lavoro del mister e della società.
La prima delle tre sconfitte in campionato avviene sotto i colpi di classe di Roberto Mancini, che porta la Samp alla vittoria resuscitando le insicurezze dei tifosi giallorossi e restituendo voce agli scettici. Il primo periodo di quell'annata meravigliosa sarà sempre contraddistinta dai forti dubbi e dalle critiche, ma anche dalla convinzione di tifare per una squadra vera, capace di lottare alla pari con gli squadroni pluridecorati.
DUELLO ROMA-JUVENTUS
Il campionato, si riesce a intravedere, non sembra caratterizzato dallo strapotere di una sola formazione, anzi le sorprese sono all'ordine del giorno. Dopo la trasferta di Ascoli la vetta del campionato dice Roma, Pisa (!) e Sampdoria a pari punti, ma le due antagoniste non sembrano poter creare problemi di lunga durata ai giallorossi. Arrivano le vittorie ai danni di Napoli e Cesena e la Roma trova la testa solitaria della classifica. Il pubblico è entusiasta, la squadra pratica un buon calcio, alle spalle non si vedono grossi avversari e un pensiero al successo finale non è solo un azzardo d'autunno.
A gelare l'entusiasmo, ecco la solita Juventus, che a Torino rimonta il vantaggio siglato dal sempre positivo Chierico. La sconfitta non lascia segni e i giallorossi riprendono il cammino fatto di vittorie interne e pareggi esterni. Fiorentina e Inter cadono all'Olimpico, le inseguitrici commettono passi falsi in provincia.
Il gioco convince, la squadra è solida, Pruzzo trova con facilità la porta avversaria, Iorio gioca abilmente come supporto al bomber e anche centrocampo e difesa contribuiscono al bottino di reti segnate.
La sfida al vertice è in scena a Verona, un campo difficile da cui i giallorossi escono con un preziosissimo pareggio dopo essere andati in vantaggio.
La Roma rimane saldamente al comando grazie ai gol decisivi di Iorio, che non ha medie realizzative altissime ma che spesso, anche nelle Coppe, si inventa uomo della provvidenza.
Nel girone di ritorno la costante rimane quella delle vittorie casalinghe e dei pareggi lontano dall'Olimpico. Ancelotti, Pruzzo e Di Bartolomei fanno la differenza: difficilmente sbagliano la "lettura" della partita, anche quando non sono in giornata di grazia.
Proprio la costanza di rendimento diventa l'arma in più, facendo apparire i pochi punti di vantaggio un notevole scarto.
A far cadere la regolarità del cammino romanista ci pensa ancora la Juventus, in una concitata partita nella capitale. Falcão porta in vantaggio i padroni di casa e la Roma, a pochi minuti dalla fine, ha sette punti sulla seconda. Ma i bianconeri ribaltano il risultato e al triplice fischio i punti di vantaggio sulle inseguitrici sono tre. La Roma è al bivio che indirizza verso il successo o relega nel limbo delle occasioni perdute: i ragazzi di Liedholm si riscattano prontamente vincendo sul campo di Pisa.
La Juve, da copione, insegue e non molla.
Un'altra ottima gara a Firenze, con un 2-2 ricco di spettacolo e bel gioco, ma la notizia clamorosa giunge da Torino: il Toro rimonta due gol alla Juve e si aggiudica il derby della Mole.
Nella capitale, lo smog lascia il passo all'aria che si respirava 40 anni prima, nei giorni del primo scudetto. Roma ribolle, ma la scaramanzia della gente e la flemma del tecnico svedese impediscono che la grande solidità dello spogliatoio e la compattezza della squadra vengano distratte proprio nel momento che conta. Un 2-0 sul rassegnato Catanzaro e Roma prepara i festeggiamenti.
In casa i giallorossi non sbagliano un colpo: dopo il pareggio di Milano con l'Inter, questa volta è l'Avellino a subire due reti. Il campionato è virtualmente deciso, mentre il Giudice Sportivo sanziona lo 0-2 per Juventus-Inter. Manca solo la certezza matematica, ma ormai i giochi sono fatti.
NILS LIEDHOLM, IL MAGO DEL NORD
La Roma pareggia 1-1 contro il Genoa e si aggiudica il campionato. La metà giallorossa di Roma si riversa per le strade e tinge con i suoi colori la città. L'ultima di campionato è storia di festeggiamenti, standing ovation e fantasia, oltre che dei gol di Pruzzo, Falcão e Conti al malcapitato Torino.
Iniziano le feste, i monumenti vengono infiocchettati, le strisce pedonali diventano giallorosse, i tifosi laziali si chiudono in casa per evitare gli... inevitabili sfottò. Si scatenano i tantissimi vip di fede romanista, con spettacoli, canzoni e soprattutto ci si gode la supremazia indiscutibile sui cugini biancocelesti.
«Con il Milan ho vinto quattro scudetti da giocatore e uno da allenatore; pensavo restassero i ricordi più belli della mia vita calcistica. Questo titolo con la Roma è di gran lunga il più sofferto quindi il più importante...»: pensieri e parole di Liedholm, uomo semplice e geniale, spesso ermetico, sempre simpatico. Parlava in pubblico col sorriso accattivante di chi si trova lì per caso, quasi fuori luogo, con quelle smorfie molto più chiare delle sue a volte incomprensibili frasi. Allenatore d'altri tempi, un grande signore del calcio.
Eppure a molti quell'apparente estraneità dal calcio dei chiassosi processi televisivi e degli investimenti miliardari non è mai andata a genio. Un uomo dal così illustre passato, ma dalla immagine pubblica a volte debole e stinta, riscaldata solo da quel viso rubizzo e dalle venuzze increspate sulle gote colorite, non sembrava l'ideale per una città come Roma, dove il tifo è un'arte e fa scuola, dove ogni bar e ogni ufficio hanno il poster della Magica in bella mostra.
Ben altra immagine aveva la sua squadra: ordinata, tecnica, esperta e soprattutto pratica. Un centrocampo stellare con Ancelotti, Prohaska, Di Bartolomei e Falcão. Una trama di piedi ottimi e cervelli fini, che ricuciva il gioco tra i reparti, con la fitta rete di passaggi e gli spunti personali che la zona richiedeva. «Con tanti piedi buoni, sarà difficile perdere palloni e quindi faticoso per gli altri recuperarne» sosteneva il mister, spiegando la scelta di un centrocampo agli occhi di molti costruito su doppioni.
I tifosi giallorossi non si lasciarono sfuggire l'occasione per incoronare il loro re di Roma, Paulo Roberto Falcão, genio delle geometrie e delle poesie del rimbalzo, l'uomo dai lanci millimetrici, centrocampista dal tiro pulito sotto porta, la "summa" delle qualità che fanno di un giocatore un campione assoluto, con i suoi colpi d'estro, le parabole impossibili, le traiettorie sconosciute alla fisica dei normali giocatori di calcio.
Prohaska era l'essenzialità, la precisione negli appoggi e nei rilanci, l'eleganza innata di chi è cresciuto alla scuola danubiana. Ancelotti era invece esploso da poco tempo, per quel suo modo di stare in campo, con quella maturità che i giocatori raggiungono solo a fine carriera, quando ne hanno viste di tutti i colori. Tatticamente fondamentale, buon corridore dal calcio preciso e potente, formava con Di Bartolomei una coppia di grande spessore tecnico e atletico.
Diba, capitano rimpianto da tutti gli sportivi italiani, aveva quel destro che solo pochi possono vantare: una punizione e lui decideva la partita, una palla morta a venticinque metri dalla porta ed era già un'occasione importante per la sua squadra. Schierato spesso come libero, impostava il gioco a testa alta, facendo valere la grande esperienza e il carisma, oltre che le indiscutibili doti tecniche.
Del piccoletto Iorio si diceva che fosse un acquisto a rischio per quella fama di giocatore dalla "dolce vita" che gli aveva impedito la completa maturazione. A Roma invece lo ricordano per i gol, gli assist, i dribbling in un francobollo d'erba, il coraggio di lanciarsi in velocità contro avversari che lo sovrastavano fisicamente. Ma soprattutto viene ricordato per aver fatto coppia con l'idolo della Sud, il bomber Roberto Pruzzo, l'incubo di ogni stopper del campionato.
Avremo visto la stessa azione decine di volte: Nela o Conti scappano sul fondo, alzano la testa e indirizzano il pallone a centro area. Il resto della manovra è nelle statistiche: 131 gol in Serie A da padrone delle aree, con lo stacco di testa perentorio e impeccabile, i gol da rapinatore sotto porta e le acrobatiche realizzazioni in rovesciata, in spaccata o in tuffo.
Luglio dell'82, Mondiali di Spagna: Pelé definì il numero 16 della Nazionale italiana il miglior giocatore del Mundial. E Bruno Conti, non appagato dai complimenti, andò fino in fondo vincendo quel Mondiale, con le discese folli sulla fascia interrotte da scostanti sferzate dei suoi piccoli piedi che trasudavano estro. Il vero brasiliano della Roma era lui, con i lampi di tecnica purissima, la fantasia smagliante al servizio del collettivo.
Se la squadra di Liedholm non buttava via un pallone, gran merito era di una difesa non solo arcigna e impenetrabile (seconda per gol subiti), ma anche in grado di giocare e costruire insieme agli altri reparti.
A guardarlo bene, Sebastiano Nela sembrava quasi un fumetto, con la faccia dura e i muscoli pronunciati, lanciato al passo di locomotiva sulla fascia, irruente a imperversare con le sciabolate di sinistro dal fondo, ma anche a imbavagliare attaccanti pericolosi e molto più celebri di lui.
E se dalla parte opposta del campo hai Maldera che, magari in modo meno spavaldo e prepotente, fa lo stesso lavoro di attacco e difesa, ti accorgi che i ruoli dei giocatori della Roma in fondo sono solo una definizione per le figurine dei calciatori.
«Ringrazio quelli della panchina, quelli come Chierico, Nappi, Valigi, Faccini...» disse il Barone nei cerimoniali post-scudetto. E in un periodo dove i titolari erano... titolari sul serio, senza i turn-over e le rose chilometriche, l'intelligenza dei sostituti era fondamentale per gli equilibri di una squadra, e soprattutto quando giocatori come Falcão e Conti risentivano di qualche lieve indisposizione, le risposte della panchina erano andate oltre le più rosee aspettative.
A completare la squadra, i due centrali difensivi: Ubaldo Righetti, cresciuto nel vivaio della Roma, capace di ritagliarsi un notevole spazio quando Di Bartolomei assumeva compiti di centrocampista, e Pietro Vierchowod, inossidabile marcatore dal fisico e dalla velocità fuori dal comune.
PROFUMO DI VIOLA
Erano le regine, in campo e fuori, Roma e Juventus. Regalavano emozioni, gioco e titoloni sui giornali. Alla guida delle rispettive società giganteggiavano Boniperti e Viola, espressione massima dell'arguzia e del senso dell'ironia. E le frecciate, a denti stretti, con gli occhi socchiusi, nelle quali trovava un certo gusto anche Agnelli col suo nobile distacco. «Di fronte al potere di Agnelli mi sento quasi una mozzarella...» ironizzava Viola parlando del Governo del calcio e degli arbitri. «Viola? È bravissimo, ha vinto il cinquanta per cento degli scudetti della Roma...» replicava il numero uno della società bianconera. Ma tra i due c'era anche tanto rispetto, una gran signorilità.
Viola era così: pungente, a volte antipatico, dotato di fascino e carisma, soprattutto di intelligenza e della furbizia propria dei grandi personaggi. Aveva trovato una Rometta salva all'ultima giornata con uno 0-0 molto sbiadito ad Ascoli (anche i marchigiani si salvarono grazie a quel punticino...), Trigoria preda della confusione, il bilancio societario in tragiche condizioni.
Poi strappò il mister fresco di stella al Milan, acquistò Falcão, riorganizzò la società e riempì lo stadio. E, come inevitabile conseguenza, arrivarono i successi della squadra e quelli personali, come l'elezione a Senatore. Ma soprattutto vinse due volte la Coppa Italia e uno scudetto, oltre alla lotta senza esclusione di colpi al potere e soprattutto alla Juventus.
Fresca di tricolore, la Roma ha la grande occasione per passare alla storia del calcio internazionale. In campionato chiude a due punti dalla Juventus, ingaggiando Cerezo al fianco di Falcão e Graziani a far coppia con Pruzzo.
Ma quello che rimarrà impresso nella memoria dei tifosi sarà la lunga cavalcata nelle notti di Coppa dei Campioni.
La Roma arriva in finale all'Olimpico, contro un grandissimo avversario: il Liverpool, squadra inglese di primissimo piano. L'Olimpico dà il meglio di sé, l'atmosfera è di quelle indimenticabili, Roma si paralizza davanti ai televisori, molti si trovano nei bar per neutralizzare tutti insieme la tensione.
Segna Neal, ma Pruzzo di testa pareggia.
I novanta minuti regolamentari e i tempi supplementari non sono sufficienti ad aggiudicare il prestigioso trofeo. I calci di rigore non portano fortuna ai giallorossi, che cadono to gli applausi di un pubblico mai così vicino alla squadra. Prima di lasciare Roma, Liedholm vince comunque un'altra Coppa Italia, come regalo d'addio per cinque anni di calcio irripetibili...
palermo da sogno 3 perle di miccoli al bologna
Miccoli mattatore nel secondo anticipo del 31/o turno di serie A. Palermo-Bologna finisce 3-1 con tripletta dell'attaccante rosanero. Al 10' Pastore serve in verticale Miccoli che segna con un destro rasoterra. Al 38' il Bologna pareggia con Adailton sorprende Sirigu con una punizione di sinistro. Ma al 43' ancora Miccoli trasforma il rigore concesso per fallo su Hernandez. Al 78' Liverani lancia Miccoli per il suo terzo gol. Palermo al quarto posto con 51 punti.
serie A: Roma a -1 dall'Inter
- Zero tituli, per ora, ma tanta felicità. Claudio Ranieri fa lo sgambetto per la prima volta a José Mourinho, la sua Roma riapre il campionato a sette turni dal termine battendo con sofferenza ma con merito l'Inter per 2-1. E ora gode anche il Milan che ha domani l'assist per portarsi a -1 in compagnia dei giallorossi. E' figlia del cuore e della tecnica la vittoria della Roma che non fallisce la partita dell'anno di fronte a 70 mila innamorati.
La fa sua la squadra di Ranieri portata per mano da De Rossi e Pizarro, ma il gol decisivo lo segna Luca Toni, migliore in campo, che torna in corsa per il mondiale con una gara sontuosa. L'Inter ha meno freschezza del previsto, pareggia con un gol di Milito ma c'era Pandev in fuorigioco. Però la grande grinta dei campioni d'Italia viene comunque fuori dato che la fortuna si allea con la Roma: per tre volte pali e traverse si sostituiscono a Julio Sergio. L'ultimo, in recupero, è di Diego Milito, attaccante di razza, autore di una spettacolare prestazione. La Roma gioca meglio e imbriglia a lungo un'Inter col fiato corto. I tanti punti che si è fatta risucchiare, il pensiero prevalente della Champions, il caso Balotelli concorrono a far pensare a una squadra in involuzione, capace comunque di trovare sempre il gol ma imballata in difesa con Julio Cesar che ha sulla coscienza il primo gol, Samuel imbrigliato da un Toni straripante. A centrocampo Cambiasso e Sneijder, continui e lucidi ma troppo nervosi, non vengono supportati a sufficienza, e davanti Etòo collabora poco con Milito. Al contrario Ranieri indovina tutto: Burdisso è implacabile, Cassetti ordinato e continuo, Riise più disciplinato del solito. Ma è a centrocampo con Pizarro e De Rossi che la Roma fa la differenza, poi può contare su un Toni in stato di grazia che guadagna punizioni, ammonizioni, dà respiro alla squadra e chiude il conto al momento opportuno. E c'é spazio pure per il ritorno di Francesco Totti per una manciata di minuti. Toccherà al capitano ora provare a trasformare la speranza in realtà perché la corsa scudetto è riaperta e la Roma, a -1, ha un calendario migliore delle sue avversarie. Scendono in campo le squadre e l'urlo dei 70 mila dell'Olimpico è da brividi. Lo spettacolo è in linea con l'importanza della sfida scudetto. L'Inter si nasconde un po', la Roma sorniona si mette in mano a De Rossi e Toni, che a centrocampo e in attacco si dimostrano subito in palla. Mourinho e Ranieri dirigono le operazioni con aplomb, ma sono i romanisti a mantenere gli avversari lontano dall'area. Al primo affondo vero la Roma passa al 16': punizione di Pizarro, testa di Burdisso che schiaccia a terra verso la porta, c'é una gran ressa e Julio Cesar interviene goffamente, arriva De Rossi come uno sparviero e fa secco il portiere. Poi si bacia il parastinchi e guarda verso il cielo. L'Olimpico esplode e l'Inter schiuma rabbia: al 17' una bordata di Sneijder da 30 metri si perde di poco fuori. Gli risponde al 31' Riise e la palla va di poco fuori. L'Inter è in difficoltà e soprattutto fisicamente soffre la continuità giallorossa con De Rossi, Pizarro e Perrotta che comandano a centrocampo mentre Menez alterna ingenuità (si fa ammonire) a spunti d'autore. Al 37' nuovo bolide su punizione, stavolta di Vucinic, consente il riscatto a Julio Cesar che devia in angolo.
I gialli a Samuel, Thiago Motta e Zanetti testimoniano le ambasce dell'Inter che a fine tempo preme: al 41' Samuel sale in cielo e di testa fa tremare la traversa, poi Milito protesta dopo un contrasto in area di Burdisso e si chiude un tempo ben giocato, all'altezza delle attesa. L'Inter si ripresenta in campo col dente avvelenato e sfiora subito il pari: al 3' spunto splendido di Milito, tiro improvviso sulla traversa, poi al 6' tocca a Sneijder approfittare di un'incertezza giallorossa, tiro da fuori che Julio Sergio respinge. La Roma ricomincia a tessere e su angolo Toni al 9 di testa all'indietro manda di poco alto. Mourinho vuole stringere i tempi: via Stankovic e dentro Pandev.
Ma i nerazzurri si vedono poco ma sono pericolosi lo stesso: il pari arriva al 21': Sneijder serve Pandev, apertura per Milito che ha lo spunto vincente, ma le moviole dimostrano che la posizione di Pandev era irregolare e quindi il gol era da annullare. La Roma non demorde e al 27' si riporta in vantaggio: Taddei a trequarti campo tenta il tiro in porta, il pallone viene intercettato da Toni a centroarea. L'attaccante si gira da manuale e trova l'angolino. L'Olimpico diventa una bolgia e mOurinho inserisce Chivu e Quaresma. La Roma cerca di gestire e inserisce dopo 42 giorni Francesco Totti.
Inter nervosa ma ficcante: prima al 43' Etòo manda di poco alto, poi al 48' Milito colpisce un altro palo con un'altra micidiale fiondata. La Roma ringrazia e festeggia, l'Inter è a un punto, il campionato godrà di sette giornate finali da centellinare. L?inter ora si deve concentrare sulla Champions e deve ritrovare un po' di serenità, oltre che un po' di freschezza atletica.
serie B: A tutto Lecce
Nella 32/a giornata del campionato di calcio di serie B il Lecce vince il derby con il Gallipoli.
Pareggi per Cesena e Sassuolo. Risultati: Albinoleffe-Brescia 1-1; Ascoli-Empoli 2-1; Cittadella-Sassuolo 0-0; Crotone-Salernitana 2-0; Frosinone-Ancona 1-1; Grosseto-Cesena 1-1; Lecce-Gallipoli 1-0; Mantova-Vicenza 1-0; Modena-Piacenza 0-1; Triestina-Padova 2-1. Reggina-Torino domani alle 12.30.
Dopo la 32/a giornata di serie B il Lecce allunga in classifica e ora ha sei punti sul Cesena e sul Sassuolo. Quarte Grosseto e Brescia.
Lecce 58; Cesena 52; Sassuolo 51; Grosseto e Brescia 49 Torino e Cittadella 47 Ancona (-2) 46; Empoli e Crotone(-2) 44; Modena e Ascoli 43 Triestina 42; AlbinoLeffe e Piacenza 41 Frosinone 40 Vicenza 39; Gallipoli, Padova e Mantova 37; Reggina 36; Salernitana 16 (-6). Reggina e Torino una partita in meno.
sabato 27 marzo 2010
Storie di calcio Carlo Petrini: ecco come ci drogavano
"Iniezioni e flebo, vent' anni fa prendevamo di tutto: al confronto ormoni e creatina sono caramelle"
"Ho cambiato pelle dalla morte di Diego. Tumore al cervello. Porto dentro il rimorso di non averlo visto vivo: ero fuggito in Francia nel 1989, spaventato dalle minacce di gente pericolosa, dopo il fallimento di alcune finanziarie che si sono mangiate anche i risparmi della mia attività professionistica".
Quanto?
"Miliardi. Un pacco di quattrini buttati via, poi una villa a Catanzaro e altri immobili sacrificati nella voragine del dissesto. Fossi arrivato accanto a Diego, avrei rischiato la pelle e, soprattutto, messo a repentaglio l'incolumità della moglie e degli altri due figli. Oggi me ne pento e i guai servono paradossalmente ad alleggerire gli incubi. Sto diventando cieco a causa di due glaucomi. Prima sono stato rovinato dalle donne? Prima cercavo l'impossibile, sicuro di non sbagliare mai, di poter vivere impunito, al di fuori d'ogni regola. Centravanti nato, avevo talento e avrò realizzato un centinaio di gol, fra A e B, senza fare un sacrificio lecito per il football".
Cominciamo dal Genoa, la società che lancia Petrini.
"Sono figlio d'un muratore e d'una casalinga. Mio padre è morto a quarant'anni, tetano. Anche l'unica sorella morì sedicenne di diabete. Sembrava andare meglio a me: proveniente dal vivaio, entrai in prima squadra il 6 gennaio 1965, Genoa - Pro Patria di serie B. Tuttavia i fatti strani arrivano nella stagione successiva, allenatore G.G. e, vice, mister V. Perdevamo spesso e occorreva qualche soluzione per risalire in classifica. Allora qualcuno in società prepara le punture "rigeneranti". Sono iniezioni di non so quali sostanze associate; il liquido prevalente, all'interno della siringa, è rosso acceso. Noi accettiamo le siringate durante la settimana e prima d'ogni partita. E' per il bene del Genoa. Ricordo che nel ritiro di Ronco Scrivia le dosi aumentarono, ci iniettavano queste sostanze una volta al giorno. Ricordo Giuliano Taccola, bianco come un cencio e poi paonazzo al termine d'una partita di quel tormentato campionato. Era adagiato sul lettino dello spogliatoio e, tutt'intorno, noi compagni avevamo paura. Respirava a fatica. Giuliano, passato alla Roma, morì circa due anni dopo. Noi eravamo paurosamente bombati: al confronto, creatina e ormoni della crescita diventano caramelle".
E i controlli antidoping?
"I medici preposti alle pipì avevano zero possibilità di scoprire i nostri imbrogli. Avevamo pronti tre accappatoi con doppia tasca e facevano pipì in una provetta da clistere quelli che non giocavano. Chi doveva presentarsi, nascondeva la provetta sotto l'accappatoio e ne spremeva il contenuto nel barattolo federale. Nessun medico, finchè sono rimasto in attività, avvertì l'obbligo d'accertare, da vicino, cosa cavolo combinassimo nel ripostiglio, davanti al rubinetto dell'acqua. Nessuno controllava gli accappatoi e, spesso, allungavo la pipì con l'acqua per sbrigarmi. Come gli altri. E la buffonata dura da decenni, mi risulta che poco o niente sia cambiato".
Poi la stagione degli spareggi per evitare la C. Giusto?
"Sì, il Genoa s'affida prima a F. e poi quindi a C., senza fortuna. L'annata disastrosa ci porta agli spareggi: quattro squadre che hanno due posti per salvarsi dal baratro. E' giugno inoltrato: tornano a somministrarci un cocktail di farmaci, tenuto dentro bottigliette rotonde di vetro, con tappi adatti per l'aspirazione della siringa. Era già successo durante il campionato, sul neutro di Ferrara, dove disputammo Verona - Genoa. In quell'occasione, avevano scelto cinque di noi, cinque cavie. Il liquido era chiaro, filature gialle e rosse. Ci siringarono un'ora prima dell'inizio della partita e ci raccomandarono di fare un riscaldamento lento, senza scatti. Dopo venti minuti mi scoppiò il fuoco in corpo, ero un assatanato che, saltando, arrivava al soffitto dell'androne dello stadio ferrarrese, alto quasi tre metri. In campo ci ritrovammo trasformati, saltavamo addosso agli avversari con la lingua gonfia e una bava verdognola attaccata alla bocca. Credo non cambiassero nemmeno gli aghi delle siringhe. Di certo, le "bottigliette miracolose" non erano sterilizzate. Passavano il batuffolo di cotone, imbevuto in un pò d' alcool e ci facevano la puntura. Così, pieni di propellenti, arrivavamo pure dove non si poteva, ignorando la soglia della fatica. Scatenati, inesausti e insonni fino alle quattro - cinque del mattimo. Infine stremati, dentro a un bagno di sudore".
Il primo spareggio è Genoa - Venezia, 36 gradi dentro lo stadio di Bergamo. Qualche retroscena inquietante?
"In quell'occasione un mio compagno volle esagerare: una siringata prima del via e un'altra, identica, durante l'intervallo. Beh, schierato accanto a me, prendeva botte, si proponeva e reagiva senza un attimo di respiro. Pareva Pelè, un drago. Il suo cuore arrivava a un livello pazzesco di battiti e accelerava sempre. Restammo in B, ma per fortuna saltai gli ultimi tre spareggi per infortunio. Fu un bene, mi venne risparmiato l'avvelenamento totale subito dagli altri. Più tardi, li mandarono a San Pellegrino per disintossicarsi; successivamente, ritenuti cotti e inservibili, vennero ceduti nelle categorie inferiori. A me toccò il Milan, collocazione prestigiosa".
Petrini, a quel punto lei era a un passo dalla gloria. O no?
"Purtroppo no, la partenza fu difficoltosa. Bloccato da uno strappo alla gamba destra, mi sottoposi ad interminabili sedute di Rontgen terapia. La stessa di cui parla Saltutti, quando accenna alle radiazioni che avrebbero provocato la leucemia di Beatrice. Mi sono venuti i brividi. Terapie a parte, nel Milan ho avuto la sensazione di recuperare un pò di normalità. Certo, realizzai appena due reti per dieci presenze, ma partecipai alla vittoria rossonera in Coppa Campioni. Nereo Rocco mi stimava, mi ripeteva che cambiando testa avrei sfondato. Giocai a Malmö, contro gli svedesi. E nella domenica seguente non ci fu nessun controllo antidoping per il Milan. Era una prassi sottintesa per le formazioni italiane impegnate in Europa durante la settimana".
Il declino parte da Varese?
"Ero stato operato di menisco al ginocchio destro e nel nuovo ambiente trovai un dottore, medico di fiducia d'uno straordinario campione. Arrivò a praticarmi tre infiltrazioni quotidiane nella caviglia, visto che mi ero anche procurato una grossa distorsione nel ritiro precampionato. E poichè il ginocchio sotto sforzo si gonfiava, le infiltrazioni diventarono quattro per due settimane consecutive. Non so quale mistura mi rifilasse; so che ora quando cambia il tempo mi riprendono dolori lancinanti alle caviglie e alle gambe. E che in Francia mi è stato diagnosticato un glaucoma che s'è divorato l'occhio sinistro. Anche l'altro bulbo oculare è pressochè distrutto per lo stesso motivo. L'ho appreso nel 1989, a 41 anni. Ora non posso guidare, nè attraversare una strada al tramonto. I medici francesi mi riferirono che questa malattia, causata dall'incremento della pressione interna, colpisce in genere i vecchi, gli ultrasettantenni. Possibile che le numerose visite d'idoneità professionale non abbiamo riscontrato niente? Squalificato per colpa del Totonero, ripresi dopo quarantadue mesi fra Rapallo, Cuneo e Savona. E, probabilmente, i miei problemi dipendono da tutte le porcherie ingurgitate, compresi chili di Micoren, ora proibito dai regolamenti. A Varese si erano inventati una ricetta contro il freddo invernale. Prima della gara, prendevamo due o tre palline di Micoren più un caffè con dentro due aspirine tritate. Il dottore ripeteva che in questo modo portavamo a temperatura giusta i muscoli e avremmo stracciato gli avversari intirizziti".
I romanisti apprezzarono il bomber Petrini. Fuggì presto la stagione 1975-76.
"Nella Roma funzionai abbastanza. Ma anche lì, se volevi una probabilità di trovare posto in squadra, dovevi sottoporti alla rituale flebo del sabato. Il massaggiatore m'avvertì in fretta: "Guarda che è nelle nostre abitudini e non puoi sottrarti alla regola...". A Roma conobbi tante donne e spesso, a poche ore dall'impegno, mi accadeva di fare l'amore in qualche albergo. A Roma basta indossare la maglia giallorossa e tutti s'inginocchiano".
Fu a Cesena il suo primo turbamento.
"Ero agli sgoccioli, vado all'ospedale civile per il chek-up di prassi e l'onestà d'un sanitario mi toglie il sonno. Mette a confronto due lastre e mi fa vedere come dovrebbe essere il ginocchio d'un trentenne. Accanto c'è la radiografia del ginocchio d'un ottuagenario; proprio il mio ginocchio scassato. Ormai sono nel giro e tiro avanti a infiltrazioni, pillole, flebo. Raschio dal barile quanto resta, le ultime energie. Il calcio è una roulette pazza, chi va in disgrazia non rimedia soccorritori".
Ecco perchè Petrini affonda senza gridare aiuto.
Fonte: Intervista di Gianni Melli
1980: calcioscommesse
C'è una data e un'ora: le cinque della sera di domenica 23 marzo 1980. Quel giorno, in quel preciso momento, il calcio italiano - con le sue storie, i suoi ricordi, la sua retorica e i suoi campioni - fu sbattuto in galera. Quando i carabinieri, alle cinque della sera, si presentarono nei principali stadi della Serie A per ammanettare - sì, ammanettare - alcuni tra i più famosi calciatori di Serie A, fu chiaro a tutti che quello non era uno scandalo come gli altri. Era, per molti italiani, la fine – dolorosa - di una passione: la scoperta di un tradimento. La conferma di un sospetto al quale noti si voleva credere: non si trattava più di una partita truccata, ma di un incredibile intreccio di combine che coinvolgeva mezza Serie A. Una farsa: ecco cos'era diventato il gioco che da ottant'anni riempiva le domeniche degli italiani. L'irruzione dei carabinieri negli stadi non fu un fulmine a ciel sereno: tre settimane prima, il 1° marzo, la Procura della Repubblica di Roma aveva messo a verbale la confessione fiume di Massimo Cruciani, l'uomo che aveva dato corpo a bisbiglìi sempre più inquietanti. Cruciani è un commerciante di frutta romano sull'orlo di una crisi di nervi (e del tracollo economico). Al magistrato racconta che le sue disgrazie hanno avuto inizio quando tale Alvaro Trinca, proprietario del ristorante Le Lampare, gli ha presentato alcuni dei suoi clienti eccellenti: i calciatori della Lazio Wilson, Manfredonia, Giordano e Cacciatori. Per Cruciani fu facile fare amicizia, anche a causa - confessa - «del mio interesse per il calcio e per le scommesse, clandestine e non, che ruotano intorno al mondo del pallone, i quattro giocatori, in proposito, mi dissero chiaramente che era possibile "truccare" i risultati delle partite, con il che, ovviamente, scommettendo nel sicuro. Accettai l'idea e decisi di intraprendere una serie di attività di gioco d'accordo con ì suddetti giocatori e gli altri che, a volta a volta, come mi si disse, si sarebbero dichiarati disponìbili». Il giochino è semplice: i calciatori prendono accordi con colleghi di altre squadre per aggiustare la tal partita, Cruciani punta, anche per conto loro, una bella somma al totonero e alla fine ci si spartisce il gruzzolo. Facile, no?
Un gioco pericoloso
Eppure, il racconto di Cruciani prende subito una piega vagamente kafkiana: «Iniziò così, per me, una vera e propria odissea che mi ha praticamente ridotto sul lastrico ed esposto a una serie preoccupante di intimidazioni e minacce». Che cosa era successo? Che all'improvviso il complice era diventato la vittima della cosca del pallone, restando intrappolato in una morsa sempre più asfissiante. «Presi contatti con il giocatore del Palermo Magherini per combinare il risultato della partita Taranto-Palermo», racconta Cruciani. Che viene pregato di giocare, per conto dello stesso Magherini, 10 milioni sul pari. Altri 10 milioni sono da girare a due giocatori del Taranto per "ratificare" l'accordo. E siamo a meno 20. Poi i 160 milioni che Cruciani scommette per conto suo e di altri amici sulla stessa partita. E se il pareggio sicuro non fosse poi così scontato? Infatti: «Contrariamente ai patti», sospira il povero Cruciani, «vinse il Palermo». E figurarsi se il gentleman Magherini rifonda l'amico dei 20 milioni anticipati. Risultato: meno 180. Per sdebitarsi, però, il giocatrore del Palermo offre un'altra dritta sicura: la vittoria del Vicenza sul Lecce abbinata a quella del Milan sulla Lazio.
Non c'è bisogno di andare oltre: Cruciani per rientrare continua ad anticipare i soldi delle puntate e le somme destinate alle squadre compiacenti, mentre il "giro" si allarga sempre di più. Ma capita troppo spesso che qualcosa vada storto: il debito aumenta e, poiché i signori calciatori non hanno alcuna intenzione di mettere mano al portafogli, si rende necessaria una nuova scommessa. Cosi via, finché il povero Cruciani - ormai rovinato da perdite di «centinaia e centinaia di milioni» e minacciato sempre più insistentemente dagli allibratori clandestini, fa l'unica cosa che gli è rimasta da fare: denunciare tutto all'autorità giudiziaria.
Dal campo al carcere
Una volta che si è deciso al grande passo, l'esasperato commerciante non salva nessuno. È una bomba: tra le squadre coinvolte, ci sono anche Avellino, Genoa, Bologna, Juventus, Perugia e Napoli. Tra i giocatori, il fior fiore della Serie A: Savoldi, Zinetti, Colomba, Dossena e Petrini del Bologna, Agostinelli e Damiani del Napoli, Paolo Rossi, Casarsa e Della Martira del Perugia, Girardi del Genoa.
La notizia è sconvolgente, ma subito c'è chi contrattacca: sarà poi tutto vero?
«Verissimo», ammette in una clamorosa intervista a Repubblica il giocatore della Lazio Montesi, che poi però, di fronte alla reazione isterica del cosiddetto entourage, si rimangia tutto.
Anche Cruciani e Trinca (il ristoratore) fanno incredibilmente marcia indietro, al punto che gli stessi avvocati, stizziti, li piantano in asso. Ormai però non è più possibile ritrattare: il 9 marzo Trinca viene arrestato con l'accusa di truffa, tre giorni dopo si costituisce anche Cruciani verso il quale era stato spiccato un mandato di cattura. Intanto tutti i calciatori chiamati in causa dalla prima confessione del commerciante vengono raggiunti da un ordine di comparizione. È in questo frangente che si colloca l'incredibile domenica delle manette. All'Adriatico di Pescara, la Lazio ha appena perso 2-0, quando all'uscita degli spogliatoi vengono arrestati in un colpo solo Cacciatori, Wilson, Giordano e Manfredonia. Nello stesso momento a San Siro, dopo Milan-Torino, vengono bloccati Albertosi e Giorgio Morini, mentre a Roma analogo destino tocca ai perugini Della Martira, Zecchini e Casarsa. Insieme a loro, finiscono a Regina Coeli Pellegrini dell'Avellino, Magherini del Palermo, Merlo del Lecce e Girardi del Genoa. E sono tantissimi i giocatori invitati a presentarsi per accertamenti: tra questi, Paolo Rossi, Dossena, Savoldi e Damiani.
È il crepuscolo degli dei, l'opinione pubblica è attonita, la Nazionale (che sta preparando gli Europei di Roma) mutilata: proprio Rossi e Giordano avrebbero dovuto essere i cardini dell'attacco azzurro.
Le sentenze
Le inchieste - della magistratura ordinaria e di quella sportiva - sono lunghissime.
La prima sentenza definitiva è quella della CAF, che retrocede in Serie B il Milan e la Lazio e penalizza di cinque punti per il campionato successivo Avellino, Bologna e Perugia. Severe le squalifiche: il presidente del Milan, Felice Colombo, è inibito a vita, quello del Bologna, Tommaso Fabbretti, per un anno. E i giocatori?
Sei anni di squalifica per Pellegrini, cinque per Cacciatori e Della Martira, quattro
per Albertosi, tre e mezzo per Petrini, Savoldi, Giordano e Manfredonia, tre per Wilson e Zecchini, due per Paolo Rossi.
E poi un anno e due mesi per Cordova, un anno per Morini, sei mesi per Chiodi, cinque per Negrisolo, quattro per Montesi, tre per Damiani e Colomba. Un'ecatombe, che fa il vuoto non solo in campo, ma anche e soprattutto sugli spalti. Il calcio perde di colpo la sua - già compromessa - credibilità e solo la vittoria degli azzurri ai Mondiali spagnoli dell'82 riporterà l'entusiasmo negli stadi. E la sentenza della magistratura odinaria? Arriva a dicembre inoltrato ed è per certi versi sorprendente: tutti i giocatori implicati nella vicenda vengono assolti «perché il fatto non sussiste». Solo una delle persone coinvolte nell'intrigo viene condannata (a una pena pecuniaria): Cruciani. E il cerchio si chiude...
Ecco il testo originale dell'esposto presentato da MASSIMO CRUCIANI, scommettitore «beffato», alla Procura della Repubblica di Roma: un'autentica bomba innescata per il calcio italiano
Ill.mo Signor Procuratore, io sottoscritto Cruciani Massimo nato a Roma, il 15-8-1948, sottopongo alla cortese attenzione della S.V. Ill.ma il seguente esposto, i fatti sottoelencati sono necessariamente scarni data la estrema complessità della vicenda; per cui, nel pormi a completa disposizione della S.V. Ill.ma fornirò in prosieguo tutti i dettagli che la S.V. medesima riterrà utili ai fini dell'indagine. Verso la metà del 1979, frequentando il locale ristorante «Le Lampare», di proprietà del Sig. A. T. che rifornivo di frutta possedendo un magazzino all'ingrosso, ebbi modo di conoscere alcuni giocatori di calcio, tra i quali in particolare Giuseppe WILSON, Lionello MANFREDONIA, Bruno GIORDANO, Massimo CACCIATORI.
Intervennero gradualmente, con costoro, dei rapporti di amicizia, alimentati dal mio interesse per il calcio e per le scommesse clandestine e non che ruotano intorno al mondo del pallone. I quattro giocatori, in proposito, mi dissero chiaramente che era possibile «truccare» i risultati delle partite, con il che, ovviamente, scommettendo nel sicuro. Mi precisarono, a titolo di esempio, che era scontato il risultato della partita PALERMO-LAZIO (amichevole) verificatasi, mi pare, nel mese di ottobre 1979 attraverso l'intervento dì Guido MAGHERINI, giocatore del PALERMO.
Accettai l'idea e decisi di intraprendere una serie di attività di gioco d'accordo con i suddetti giocatori e gli altri che a volta a volta, come mi si disse, si sarebbero dichiarati disponibili. Iniziò così, per me, una vera e propria odissea che mi ha praticamente ridotto sul lastrico ed esposto ad una serie preoccupante di intimidazioni e minacce.
Come ho già detto, tutta la vicenda è costellata di tali e tanti episodi dettagliati che, in questa sede, mi limiterò ad illustrarne alcuni, riconfermandomi a disposizione della S.V. Ill.ma per tutto il resto. Successivamente, ad esempio, alla partita PALERMO-LAZIO accennata, presi contatti con il MAGHERINI per combinare il risultato della partita TARANTO-PALERMO prevista per il 9-12-1979. In proposito il MAGHERINI organizzò il pareggio delle due squadre a patto che io giocassi sul risultato, nel suo interesse, 10.000.000 e altri 10.000.000 consegnassi a ROSSI Renzo e QUADRI Giovanni del TARANTO. Contrariamente ai patti, vinse il PALERMO. Il MAGHERINI, a tal punto, avrebbe dovuto rifondermi i 10.000.000 giocati per lui ed i 10.000.000 consegnati ai giocatori del TARANTO, ma si rifiutò. Inoltre in seguito al mancato rispetto degli accordi ho perduto, insieme ad altri scommettitori che meglio preciserò in prosieguo, L. 160.000.000 presso svariati allibratori clandestini.
A seguito delle mie rimostranze, il MAGHERINI mi promise il risultato certo della partita LANEROSSI VICENZA-LECCE. Nella stessa occasione egli combinò, d'accordo con i citati giocatori della LAZIO il risultato MILAN-LAZIO (entrambe le partite ebbero luogo il 6-1-1980). Per quanto riguarda la Partita LANEROSSI VICENZA-LECCE il MAGHERINI mi mise in contatto con Claudio MERLO giocatore del LECCE, il quale ricevette da me un assegno di L. 30.000.000 assicurando la sconfitta della sua squadra. Per quanto riguarda l'altra partita MILAN-LAZIO i giocatori biancazzurri GIORDANO, WILSON, MANFREDONIA e CACCIATORI si accordarono con Enrico ALBERTOSI del MILAN affinché si verificasse la vittoria di quest'ultima squadra. Per quest'ultima partita consegnai tre assegni da 15.000.000 e due da 10.000.000 a GIORDANO, WILSON, MANFREDONIA, VIOLA e GARLASCHELLI, affidandoli materialmente a MANFREDONIA. Ulteriore assegno di L. 15.000.000 consegnai a CACCIATORI Massimo (Lazio) il quale provvide ad incassarlo intestandolo a certo sig. Orazio SCALA.
Il Milan, da parte sua, contribuì alla «combine» con l'invio di L. 20.000.000 liquidi che mi portò a Roma, nel mio magazzino di Via (omissis) il giocatore di tale squadra Giorgio MORINI, due giorni dopo il rispettato esito dell'incontro. In conseguenza nei citati accordi, ed in cambio del loro contributo, WILSON, MANFREDONIA, GIORDANO e CACCIATORI mi chiesero di puntare per loro 20.000.000 sulla sconfitta della LAZIO. La vincita di lire 80.000.000 d'accordo con i quattro anziché consegnarglieli avrei dovuto usarli per pagare i giocatori dell'AVELLINO (Cesare CATTANEO, Salvatore DI SOMMA, Stefano PELLEGRINI) i quali avrebbero dovuto perdere contro la LAZIO la settimana successiva.
Io ed altri scommettitori, in base agli accordi di cui sopra, abbiamo scommesso per «l'accoppiata» costituita dai due risultati concordati, circa 200.000.000 di lire: cifra perduta per il mancato rispetto dell'impegno assunto dalla squadra leccese la quale ha pareggiato 1-1. Tutto quanto sopra, costituisce una esemplificazione di come si svolgessero i moltissimi episodi di cui è costellata questa storia, che, come più volte precisato illustrerò in prosieguo, nei dettagli, alla S.V. Ill.ma.
Desidero peraltro precisare che le squadre coinvolte in questa storia sono anche l'AVELLINO, il GENOA, il BOLOGNA, la JUVENTUS, il PERUGIA, il NAPOLI. Ciò nel senso che i relativi giocatori o meglio alcuni di essi come Carlo PETRINI (Bologna), Giuseppe SAVOLDI (Bologna), PARIS (Bologna), ZINETTI (Bologna), DOSSENA (Bologna), COLOMBA (Bologna), AGOSTINELLI e DAMIANI (Napoli), Paolo ROSSI e DELLA MARTIRA e CASARSA (Perugia), GIRARDI (Genoa) ed altri hanno partecipato agli incontri truccati percependo denaro o richiedendo, in cambio dei loro favori, forti puntate nel loro interesse.
Ho invece perduto, insieme ad altri scommettitori, centinaia e centinaia di milioni per scommesse perdute in seguito al mancato rispetto di precisi e retribuiti accordi da parte di giocatori. Preciso ancora che molti allibratori clandestini i quali a seguito delle recenti notizie giornalistiche hanno capito di avermi talora pagato vincite in ordine a risultati precostituiti, hanno preteso con gravi minacce la restituzione di circa 300.000.000 (da me ed altri scommettitori) trattenendo peraltro, ovviamente, le ben più ingenti somme perdute in seguito ai non rispettati accordi di cui sopra.
Sono ormai completamente rovinato eppure vivo ancora nel terrore di minacce e rappresaglie.
Nel confermarmi a completa disposizione della S. V. Ill.ma e riservandomi di depositare la documentazione in mìo possesso, precisare nomi di testimoni e tutte quelle circostanze che la S. V. medesima riterrà utili, porgo deferenti ossequi.
Roma, 1 marzo 1980
Italia 1982: I Grandi di Spagna
Ventidue leoni in gabbia si aggirano negli spazi dell'hotel Castillo di Sant Boi de Llobregat, periferia di Barcellona. Ventidue uomini toccati, feriti e inquieti. Dal fresco di Vigo alla canicola catalana hanno portato sulle spalle una messe di risentimenti e una novità assoluta per il calcio italiano: il silenzio stampa.Il mondiale spagnolo è giunto alla seconda fase. Le potenze sono ancora tutte in corsa, anche se nella maggior parte dei casi il loro cammino non è stato trionfale: la Spagna padrona di casa ha superato la Jugoslavia solo in virtù di una condotta arbitrale da censura; l'Argentina campione in carica ha accusato un passo falso contro il Belgio; Germania Ovest e Austria hanno fatto fuori una splendida Algeria accordandosi spudoratamente nell'ultima partita. Solo Inghilterra e Brasile hanno ottenuto il lasciapassare a punteggio pieno. Addirittura, lo squadrone sudamericano ha messo a segno dieci reti, subendone solo due.
Quanto all'Italia, si può definire grande solo per i fasti passati. Non sembra esserci più traccia della squadra che quattro anni prima, rinnegando il cinismo del calcio all'italiana, ha sfiorato la finale. Nel clan azzurro c'è aria pesante, alimentata dai responsi delle premondiali: sconfitta (0-2) con la Francia a Parigi; sconfitta (0-1) a Lipsia con la Germania Est; pareggio incolore a Ginevra contro la Svizzera. Addirittura sconfortante il test sostenuto a tre giorni dal debutto contro il Braga, serie B portoghese: 1 a 0, gol di Graziani e una manovra contratta e involuta.
Bearzot è il testardo capo di questi masnadieri ormai privi di nerbo. E dire che la squadra è quella presentata in Argentina nel '78, salvo alcuni rimpiazzi imposti dalla carta di identità e la dolorosa rinuncia a Bettega, infortunato. Una quasi unanime campagna di stampa, nell'imminenza del mondiale, ha cercato di suggerire al condottiero friulano la chiamata del "genio" interista Beccalossi, che a 26 anni ha raggiunto i vertici della sua arte calcistica.
Ma Bearzot non ha sentito nessuno, per Beccalossi nella sua idea di squadra non c'è posto. Alla partenza per la Spagna, a Fiumicino, il commissario tecnico si è anche dovuto difendere da un insulto urlato con rabbia da una ragazza: «Bastardo!». Lo ha fatto rifilandole un ceffone, a scopo educativo.
I leoni in gabbia, nel "retiro" di Barcellona, non hanno certo superato le tensioni della vigilia. Anzi, il cammino fatto nella prima fase dei campionati, benché concluso con la qualificazione, li ha messi ancor più alla berlina. Pareggio, discreto, con la Polonia; pareggio, brutto e affannoso, con il Perù; pareggio, opaco e calcolato, con il Camerun. Risultato: secondo posto nel girone e passaggio alla seconda fase per differenza reti, ai danni del Camerun.
Le critiche sono cresciute dopo ogni prova e dall'Italia hanno raggiunto gli azzurri nell'umida dimora di Vigo. Critiche al gioco, al difensivismo a oltranza, all'impreparazione fisica, all'ostinazione di Bearzot nel tenere in campo il pallido, smagrito e inconcludente Rossi. Già, proprio il Pablito strepitoso di Argentina, rimasto impegolato nello scandalo scommesse e uscito dai due anni di squalifica proprio qualche settimana prima dell'inizio del mondiale.
Per il pubblico che lo attendeva come il messia quei due anni non sono passati, ma per Rossi sì. Il ragazzo sorridente e disponibile di prima adesso si isola ed evita per quanto possibile i giornalisti. Si capisce che la squalifica, per fatti di cui si è sempre dichiarato innocente, lo ha segnato non solo nel fisico.
Al ritiro azzurro si è presentato cinque chili sottopeso e ancora non li ha recuperati tutti. Le difficoltà evidenziate anche nelle giocate più semplici, la condizione atletica inquietante, l'evanescenza nello scontro fisico, gli hanno rapidamente alienato i favori del pubblico. Durante un allenamento, alla vigilia dell'incontro con il Camerun, un italiano gli ha gridato al megafono: «Rossi, sei comico!». Per lui ha reagito Graziani: «Se siete venuti solo per attaccarci potevate restare a casa». Anche quando tutti ne chiedono la testa, Bearzot continua a ritenere Rossi troppo importante per non attenderne il risveglio.
Ma gli strali polemici non sono venuti solo dalla stampa. Dopo la partita col Perù hanno chiesto a Matarrese, presidente di Lega, se Catuzzi, allenatore del suo Bari, si sarebbe comportato come Bearzot; cioè, se avrebbe mandato in campo Causio, e non un attaccante, al posto di Rossi. La risposta: «Non offendiamo Catuzzi». E ancora: «Al posto del presidente federale Sordillo non sarei sceso negli spogliatoi, perché avrei dovuto prendere tutti a calci nel sedere». E dall'Italia è giunta anche la bordata del giovane tecnico Fascetti: «Mi vergogno di appartenere alla stessa categoria di Bearzot».
Fin qui, rilievi più o meno tecnici. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto la diatriba sul premio di qualificazione: si è parlato di 60-70 milioni a testa e su tali voci si sono levate proteste nell'opinione pubblica, un'interrogazione parlamentare e un esposto alla Procura della Repubblica di Roma. Poi è intervenuto Sordillo, precisando che ogni azzurro avrebbe ricevuto una ventina di milioni lordi. E Carraro, presidente del Coni, ha assicurato che per il pagamento si sarebbero utilizzate le percentuali sugli incassi. A questa tensione di fondo si è aggiunta poi una ventata di basso giornalismo, con volgari insinuazioni su Rossi e Cabrini compagni di camera.
Insomma, l'aria di Vigo si è rivelata umida in tutti i sensi. Così, al momento di lasciare la Galizia per Barcellona, la squadra, provata anche psicologicamente dalla passata paura dell'eliminazione, ha annunciato il silenzio stampa. Nessun giocatore, a termine indefinito, avrebbe più rilasciato dichiarazioni, salvo capitan Zoff.
Al sole di Barcellona, quindi, gli azzurri si leccano le ferite e meditano una vendetta difficilissima, considerati gli abbinamenti per la seconda fase. Con il secondo posto del turno eliminatorio, l'Italia s'è guadagnata infatti due terribili compagni d'avventura: Argentina e Brasile. La prima arrivata di questo terzetto va in semifinale, le altre a casa.
Bearzot ha un unico credo: difendere i suoi, fino allo stremo. Rivelerà poi di aver visto nella fase eliminatoria, in particolare contro il Perù, la squadra letteralmente terrorizzata dalla paura di perdere; ma intanto distribuisce ai giocatori elogi che, a fronte della realtà, paiono senz'altro esagerati.
I giocatori, di conseguenza, fanno blocco in favore del loro tecnico, anche se, per la verità, qualche crepa affiora: il giovane Massaro, per esempio, è segnalato come uno dei più in forma, ma si dice sia stato "cancellato" da Bearzot dopo l'amichevole di Braga, quando il giocatore ha espresso critiche ai compagni. E Altobelli, che in allenamento segna a ripetizione, rimugina amaro sul suo ruolo di panchinaro. L'emergente Dossena, invece, che molti vedrebbero volentieri in squadra, si adatta di buon grado a fare il "turista".
II silenzio stampa non piace al presidente Sordillo, che prima del debutto nel secondo turno, contro l'Argentina, tenta di convincere la squadra a desistere. Zoff risponde picche.
Di fronte all'Italia di Vigo, l'Argentina sembra uno scoglio titanico. Rispetto a quattro anni prima, i campioni del mondo hanno aggiunto al loro organico un po' invecchiato il miglior giocatore in circolazione, quel Maradona che giocherà davanti ai suoi prossimi tifosi, visto che ha da poco firmato un contratto principesco con il Barcellona. Maradona con la palla al piede fa prodigi che non si vedevano dai tempi di Pelè. Degli azzurri lo conosce molto bene Tardelli, che lo ha affrontato due volte: la prima con la Nazionale nel '79, a Roma; la seconda in un'Argentina-Resto del Mondo. In quest'ultima occasione Tardelli fu espulso per rudezze ai danni del giovanissimo e imprendibile avversario.
Bearzot fa strenua pretattica, non vuole dare alcun vantaggio al carismatico Menotti, tecnico avversario, con il quale i rapporti non sono al momento idilliaci. L'argentino, infatti, ha imbastito critiche abbastanza dure nei confronti della squadra azzurra, definita "squilibrata" e nettamente inferiore a quella presentata in Argentina. Bearzot non digerisce e rimanda al mittente: «Anche la sua squadra, durante le amichevoli premondiali, poteva essere definita squilibrata. E poi cosa ne pensa della prestazione dei suoi contro il Belgio?».
Schermaglie a parte, il cittì azzurro non ha intenzione di toccare nulla rispetto agli uomini impiegati contro il Camerun: Zoff tra i pali; Collovati, Gentile e il libero Scirea a formare il pacchetto difensivo, con Cabrini fluidificante a sinistra; a centrocampo, Oriali, Tardelli e Antognoni, con il supporto di Conti; Rossi punta centrale, Graziani in appoggio.
Rimane un unico dubbio: chi marcherà Maradona? Bearzot è indeciso fra Tardelli e Gentile. Ma Maradona gioca in chiave esclusivamente offensiva, e Tardelli su di lui dovrebbe fare il difensore puro, privando così la squadra di una spinta importante. Così, negli spogliatoi, a pochi minuti dal fischio d'inizio, Bearzot prende da parte Gentile e gli fa un discorsetto di questo tipo: «Maradona lo prendi tu. E' un grandissimo, il tuo compito è fondamentale. Ma io ho fiducia in te. Va' in campo e annullalo». Per uno come "Gheddafi" basta e avanza: l'ultimo momento in cui Maradona può muoversi senza un'ombra azzurra appiccicata addosso è quello del riscaldamento.
Il piccolo Sarrià, secondo stadio di Barcellona dopo il Nou Camp, è una fornace ribollente: le prime fasi si risolvono in una sequela di scontri durissimi. Gli azzurri mostrano i tacchetti, ma dall'altra parte, con gente come Passarella e Gallego, non ricevono sorrisi. Maradona prova ad esibirsi, si vede che il suo bagaglio è superiore. Ma l'ombra azzurra che gli è alle costole sembra avere cento mani e cento piedi: il "pibe de oro" è trattenuto, bloccato, "massaggiato". E quando, verso la metà del tempo, riesce ad andar via e puntare dritto alla porta, viene steso senza pietà dal classico e generalmente correttissimo Scirea.
Si va al riposo sullo 0 a 0. Neanche male, almeno non si sono riviste le mollezze e i timori di Vigo. E nella seconda parte, dopo una dozzina di minuti, parte dai piedi di Conti un contropiede che taglia in due i biancocelesti. L'ultimo tocco è di Antognoni per la veloce sovrapposizione di Tardelli che, spostato a sinistra, piazza un rasoterra nell'angolo lontano. E' una rasoiata al petto dell'Argentina. Un sogno? Neanche per idea, perché da quel momento l'Italia tiene botta di fronte agli attacchi avversari senza concedere più nulla.
Lo stesso Gentile non ricorre nemmeno più al fallo per fermare Maradona. Gli azzurri formano ora un meccanismo perfetto, in cui lo stesso Rossi dà cenni di ripresa. E proprio a Rossi, poco dopo, capita l'opportunità di filare da solo verso il portiere Fillol. Al momento della battuta, in preda alla fatica e a tutte le sue tensioni irrisolte, Paolo si rattrappisce scomposto e consente a Fillol la respinta. Il mondo potrebbe crollargli addosso, se quel pallone non fosse subito artigliato e giocato magicamente da Conti, che dopo aver nascosto la sfera allo stesso Fillol, la serve indietro a Cabrini. Sinistro secco e 2 a 0.
Ora si va in discesa. Esce esausto Rossi ed entra Altobelli, appena in tempo per prendersi una perfida gomitata in faccia da Passarella. Lo stesso Passarella calcia una punizione mentre Zoff sta ancora sistemando la barriera e porta l'Argentina sul 2 a 1, fra le proteste italiane. In chiusura, folleggia ancora Bruno Conti, capace di uscire palla al piede da un nugolo di gambe che lo falciano come motoseghe.
Cosa è successo? Non è facile spiegarlo, sta di fatto che i giocatori hanno trasformato la sindrome da assedio da cui è nato il silenzio stampa in una straordinaria forza morale. Ecco cosa meditavano i leoni in gabbia, nella tesa vigilia. Bearzot si presenta in sala stampa senza sorridere. Anche per lui è una rivincita ed evidentemente le ultime polemiche il cittì le ha ancora sullo stomaco. Pur nel successo, tende ancora a giustificare le precedenti magre: «Nelle prime partite - dice - c'è mancato il colpo del k.o.».
Fra gli azzurri, molti cominciano a pensare che sarà difficile fermare la "nuova" Italia. Eppure, è alle viste l'incontro con i "mostri" brasiliani, predestinati al trionfo. Intanto, c'è modo di rilassarsi. Il giorno dopo la battaglia, Graziani, Rossi e Collovati scendono presto in sala video per rivedersi l'incontro. Gli altri dormono fino a tardi e nel pomeriggio sciamano per le vie di Barcellona in tutta libertà. Chi vuole, può tornare anche alle soglie della mezzanotte.
La mattina del 2 luglio, a Casa Italia piomba il presidente del Consiglio Spadolini, diretto a Madrid. Non sono momenti facili per lui e per il suo governo. Ma soprattutto non sono momenti facili per l'Italia, che si scopre infestata dalla P2 e nelle more oscure dell'affare Calvi, trovato qualche giorno prima impiccato a Londra. Di fronte a Spadolini, Sordillo si lancia in un discorso aulico, con riferimenti addirittura alla fatale avventura di Leonida alle Termopili.
Nel pomeriggio, gli azzurri si recano di nuovo al Sarrià, ma questa volta in veste di spettatori interessati: c'è Argentina-Brasile, un grande classico del calcio mondiale. Il Brasile signoreggia contro un avversario ormai provato. Uno, due, tre gol, a cui gli argentini oppongono solo una segnatura in extremis. Maradona si fa prendere dall'ira, piazza i bulloni sul fianco di Batista e conclude il suo mondiale con un cartellino rosso. A scusante della sua magra pone i colpi presi contro l'Italia. «Non è ancora maturo», sentenzia il grande Pelè, che ha invece eletto Bruno Conti a suo preferito.
Italia-Brasile è quindi lo scontro decisivo. A Casa Italia i rapporti fra stampa e squadra non sono certo tornati allegri: fra Gentile e Lino Cascioli del Messaggero si viene quasi alle mani. Ai sudamericani basta il pareggio, per la migliore differenza reti. Bruttissimo affare: bisognerà scoprirsi. Nelle certezze del Brasile affiora comunque qualche preoccupazione. Il selezionatore Santana teme il contropiede azzurro e si dice ammirato dalle giocate di Conti e Antognoni. Le due squadre sono al completo, l'unico dubbio è la presenza di Zico, maestro fra i maestri, vittima di un'entrata assassina di Passarella. L'opinione comune è che fra le due formazioni ci sia un forte divario. Eppure, nel cammino trionfale del Brasile è possibile intravedere piccole falle, soprattutto nella scarsa affidabilità del portiere Valdir Peres e nell'assenza di un uomo d'area più prolifico di Serginho. Inoltre, gli italiani hanno riposato cinque giorni, i loro avversari due.
Zico passa la vigilia con la borsa del ghiaccio sul polpaccio sinistro, ma alla fine decide di giocare. Bearzot ha previsto di affidarlo a Oriali, dirottando Gentile sull'ala Eder, mancino temibilissimo. Invece, proprio dieci minuti prima dell'inizio, Bearzot chiama Oriali e Gentile e rimescola le carte: «Ti ho visto molto bene su Maradona - dice a Gentile - perciò prendi anche Zico. Oriali va su Eder».
Sul campo, gli azzurri fanno la parte delle vittime predestinate solo per 5 minuti. Poi, Conti opera un lungo dribbling sull'out destro, cambia gioco per Cabrini, che alza la testa ed effettua il traversone arcuato. E' un attimo: dietro ai difensori si materializza Rossi, che di testa va a cogliere l'angolo lontano. Incredibile: gol al Brasile e gol di Rossi! Il Brasile è un gigante colpito da un pallino di gomma: qualche secondo dopo ha già ripreso a infiorettare gioco con somma noncuranza dell'avversario. E fortuna che Serginho ciabatta malamente a tu per tu con Zoff.
Poco dopo, però, Zico ruba il tempo a Gentile e chiama all'incursione Socrates: il "Dottore" accenna il cross e va invece beffardamente a trafiggere Zoff sul primo palo. L'illusione è durata poco. I brasiliani fanno girare palla con sicurezza, orchestrati dal centrocampo delle meraviglie: Falcao, Cerezo, Socrates, con gli apporti di Junior e Eder. Zico è una volpe: le sue giocate di prima mandano spesso a vuoto Gentile, che in una occasione gli si aggrappa alla maglia e gliela strappa. Ma la troppa sicurezza a volte tradisce: su un passaggio orizzontale di Leandro, Cerezo e Junior la prendono un po' alla leggera; fra i due sbuca Rossi, davanti al quale si spalanca il corridoio verso la porta avversaria. Breve corsa verso Valdir Peres, botta di destro e gol. Eccolo di nuovo il Pablito conosciuto in Argentina, il predatore che riesce a farti rimpiangere per la vita un attimo di disattenzione. Intanto, Collovati è uscito per infortunio e Bearzot ha mandato in campo il non ancora diciannovenne Bergomi, che i compagni, per l'aria seria e i baffoni, chiamano "zio".
Tutto sembra filare liscio, nel secondo tempo, fino a quando il romanista Falcao trova una buco centrale al limite dell'aria e batte Zoff. La sua gioia sfrenata è la nostra disperazione, anche perché mancano solo 17 minuti. Il Brasile a questo punto vuole il trionfo, continua ad attaccare anche se il pareggio gli va benone. L'Italia guadagna un corner, la difesa respinge dalle parti di Tardelli, che tenta la battuta. Non sarebbe niente di straordinario, se in mezzo alla mischia non sbucasse un piede di Pablito a mettere dentro per la terza volta. Per Rossi un tris memorabile, ma per l'Italia non è finita.
Gli attacchi brasiliani adesso sono disperati e affannosi. Zoff ha urlato come un ossesso durante tutta la partita e adesso sembra non aver più neanche un filo di fiato. Ma su un colpo di testa di Cerezo, si lancia sulla sinistra e blocca la palla proprio sulla linea, togliendo dieci anni di vita a milioni di italiani. Va via l'Italia in contropiede, Antognoni tira e fa gol, ma l'arbitro annulla per un fuorigioco che non esiste. E bisogna soffrire qualche altro minuto, prima del triplice fischio.
I tifosi brasiliani, che nei giorni precedenti ave-vano riempito di musica e balli le ramblas, rimangono impietriti. Piangono, come piange Falcao in campo. La festa italiana comincia invece all'unisono a Barcellona come nelle nostre piazze. Ricompaiono bandiere tricolori tirate fuori da chissà quale anfratto.
Rossi è un eroe. Perfino quelli che lo trattavano da bidone vanno a manifestargli la loro ammirazione. In novanta minuti ha rimesso la sua carriera su binari lasciati due anni prima. All'hotel Castillo adesso regna l'euforia. Gli azzurri ormai sono straconvinti che nessun ostacolo si potrà frapporre alla conquista del mondiale.
In semifinale ci tocca la Polonia. Grave rischio: dopo le imprese con Argentina e Brasile, i polacchi, già incontrati nella prima partita, possono essere considerati solo una formalità da sbrigare in tutta fretta. Tanto più che il loro uomo migliore, il prossimo juventino Boniek, è squalificato. Qualche problema, in verità, ce l'ha anche Bearzot: Gentile non ci sarà, anche lui per squalifica; Vierchowod, suo eventuale sostituto, è infortunato; Tardelli e Oriali sono malconci, ma in grado di farcela. Al posto di Gentile gioca Bergomi.
Barcellona è un forno a 40 gradi. Titola la "Vanguardia": «La temperatura più alta del secolo». Ribadisce il "Noticiero": «Un cinturone di fuoco attorno a Barcellona». Sale anche la temperatura degli italiani, il cui numero nel capoluogo catalano è aumentato notevolmente. Contro la Polonia si gioca nello sterminato Nou Camp. Stavolta è l'Italia a recitare la parte della favorita.
I polacchi si difendono non senza rudezze, ma per il gol del vantaggio bisogna aspettare solo una ventina di minuti. Calcio di punizione dalla destra di Antognoni e palla in rete. Ci vorranno due o tre replay per accorgersi che su quella traiettoria è spuntato il piede rapinoso di Rossi per una deviazione fatale. Poco dopo, lo stesso Antognoni, ancora toccato dal gol annullatogli contro il Brasile, va a tentare un'improbabile conclusione, benché in ritardo sull'avversario. Risultato: squarcio sul piede e sette punti di sutura. Al suo posto, Marini.
Sorte analoga tocca nel secondo tempo a Graziani, sostituito da Altobelli per un infortunio alla spalla. Ma l'Italia va spedita verso la finale, così come va spedito Conti sulla fascia sinistra, prima di crossare un morbido e comodo pallone, sul quale Rossi si inginocchia firmando il 2 a 0 definitivo.
Cinque gol in due partite: nei giorni bui di Vigo, Rossi aveva cercato di profetizzare: «Giudicatemi alla fine. Credo che se segnassi un gol mi sbloccherei». Ma quanti gli avevano prestato fede?
Uscendo dal campo, Zoff si avvicina a Bearzot, che si intrattiene con una televisione, e lo bacia. In quel gesto fra friulani schivi c'è la compattezza e la coesione di tutto l'organico. Al di là delle scelte tecniche, sembra questo il tratto distintivo di questa nazionale.
Bene, è finale. Una finale di straordinario valore simbolico, visto che metterà di fronte due grandi della storia del calcio: Italia e Germania Ovest. Entrambe le nazionali aspirano a raggiungere il Brasile con i suoi tre titoli mondiali, I tedeschi hanno agganciato la finale ai rigori contro la Francia, dopo essere stati in svantaggio di due gol ai tempi supplementari. Ce n'è abbastanza per alimentare la loro fama di irriducibili. Ma l'Italia ormai ci crede se ci fosse uno strumento per misurare la carica agonistica, con gli azzurri scoppierebbe.
Ecco Madrid, finalmente: la comitiva italiana alloggia all'Hotel Almeda, già prenotato dai brasiliani, Ma guarda un po' come va a ripetersi la storia: nel '38, prima della semifinale Italia-Brasile, Pozzo andò dai brasiliani che in rista della finale avevano prenotato l'unico aereo per Parigi, a chiedere di cedere i posti nel caso di vittoria italiana, «Spiacenti - risposero - ma non avete alcuna possibilità di batterci». L'Italia vinse 2 a 1 e andò a Parigi in treno.
Il baluardo del silenzio stampa non crolla neanche a un giorno dalla finale: l'unica deroga viene concessa a Bergomi, che così può spiegare le sue sensazioni di diciottenne nella mischia del mondiale.
Da Roma, arriva anche Pertini. Il presidente si era sempre rifiutato di raggiungere la Spagna, temendo, in caso di eventi negativi, di fare la parte del menagramo. Ha ceduto solo all'invito espresso del re Juan Carlos. Non ha questi problemi invece la folla variopinta degli italiani riversatisi da Barcellona nella capitale.
Bearzot e il suo collega Derwall hanno un grande problema ciascuno: Antognoni da una parte, Rummenigge dall'altra. Il regista azzurro soffre ancora per l'infortunio subito in semifinale; l'attaccante tedesco ha problemi muscolari, ma vuole esserci lo stesso, tanto più che contro la Francia il suo ingresso è stato provvidenziale.
Le decisioni dei due cittì sono opposte: fuori Antognoni, dentro Rummenigge. Per sostituire il suo uomo, Bearzot rimescola parzialmente le carte: ignora Dossena, il sostituto naturale, e Marini, altro centrocampista, facendo invece avanzare Cabrini. In difesa inserisce di nuovo Bergomi.
Non solo: al giovanissimo difensore Bearzot assegna il controllo di Rummenigge, l'uomo di maggior spicco, che con cinque reti contende a Rossi il titolo di capocannoniere.
Alla vigilia i tedeschi sono sicuri di farcela. Ma il giorno della partita, uscendo dall'albergo, ricevono subito un auspicio infausto: il percorso che porta allo stadio è quasi interamente invaso da striscioni e bandiere italiane. Certo, non basta questo a piegare una squadra zeppa di veterani.
A parte capitan Breitner, già punto di forza della Germania Ovest campione nel '74, c'è gente come Stielike, "cattivo" per eccellenza, o come il portiere Schumacher, che in semifinale ha deturpato l'arco dentario a Battiston senza battere ciglio.
La preponderanza del tifo italiano è riscontrabile anche all'interno del monumentale Bernabeu. Ma una partita si gioca sul campo, e sul campo le cose per l'Italia stentano a mettersi bene, tanto più che dopo sette minuti Graziani, dolorante, deve lasciare il campo. Lo sostituisce Altobelli, così com'era accaduto contro la Polonia. Il duello Bergomi-Rummenigge pende subito dalla parte dell'italiano, anche perché Kalle mostra tutti i suoi acciacchi. Intanto, nei pressi dei due, aleggia un ritornello costante: «Calmo, zio, calmo». Sono Zoff e Scirea che incoraggiano il giovane compagno di reparto.
Si lotta su ogni pallone, senza troppo costrutto. Dopo poco più di venti minuti, la mole del decatleta Briegel crolla sul peso leggero Conti: rigore. Va Cabrini. Davanti a lui un glaciale Schumacher. Breve rincorsa, un sinistro scomposto e arrotato all'eccesso, che termina a lato. Cabrini rimane in trance, mentre il primo tempo va a finire senza altri scossoni.
Negli spogliatoi i compagni scuotono Cabrini e si preparano alla stretta finale senza più pensare all'occasione del rigore. Tutt'altra aria alberga fra gli avversari, un po' sorpresi dalla solidità morale degli azzurri: «Di solito nell'intervallo discutevamo - ricorderà poi Rummenigge - ognuno dava consigli, suggerimenti. Quella sera invece non fiatava nessuno. Un silenzio quasi irreale, pareva di essere sotto di tre o quattro gol, invece eravamo sullo 0-0, potevamo ancora giocarci il titolo. Niente. Solo le parole di Derwall, ma nessuno di noi aprì bocca».
Le paure si materializzano dopo undici minuti del secondo tempo. Gentile mette in area un pallone, Cabrini va per colpirlo, ma si sente travolgere da una furia: è Rossi, che con un mezzo tuffo incorna e mette dentro: 1-0, ancora per merito di Pablito, fin lì annullato da Karl Heinz Forster.
Ora la Germania attacca e scopre il fianco. Passa solo una decina di minuti, prima che Scirea, autore dell'ennesima magnifica prova, scenda palla al piede. Il libero azzurro, nei pressi dell'area avversaria, prima scambia con Bergomi. poi pesca al limite Tardelli. Questi ha un controllo impreciso, poi, prima che la palla gli sfugga, l'arpiona con un sinistro micidiale, che batte sul palo e lascia di sasso Schumacher. L'incontenibile, commovente incontrollata esplosione di gioia del giocatore diventerà il simbolo del mondiale.
Il resto è apoteosi azzurra: Conti galoppa sulla destra e taglia basso per Altobelli. Controllo a eludere il portiere e palla per la terza volta nel sacco. Esulta anche Pertini, che salta in piedi e fa di no col dito: «Non ci prendono più». Il gol della bandiera di Breitner arriva solo a sette minuti dalla fine, ma sono sette minuti di sofferenza per il pubblico italiano, che teme una delle rimonte impossibili di cui è piena la storia della Germania. Il triplice fischio del brasiliano Coelho è quindi una liberazione.
Campioni del mondo! Zoff solleva la Coppa in un gesto che dodici anni prima, sull'erba dello stadio Azteca, ha visto fare a Carlos Alberto, capitano del magico Brasile di Pelè. Quel giorno era in panchina. I suoi compagni di allora sono da anni allenatori, dirigenti o chissà che. Dino invece, a quarantanni anni vive la massima soddisfazione della carriera.
I leoni in gabbia di Vigo sono ora sul tetto del calcio. Hanno cominciato a vincere quasi per rabbiosa ripicca, poi hanno abbattuto ogni ostacolo, a dispetto di un cammino difficile. Tornano in Italia, a Roma, accolti da una folla in festa. Con loro viaggia anche Pertini, che durante il volo, in coppia con Zoff, dà vita a una memorabile sfida a scopone contro Bearzot e Causio.
Con la vittoria spagnola il calcio italiano cancella dopo due anni la depressione indotta dallo scandalo scommesse. Le vicende del pallone attireranno come mai in passato il pubblico femminile, allargheranno il loro già robusto spazio sui giornali e invaderanno gli schermi televisivi, fino a toccare livelli esagerati.
La banda Bearzot perderà lentamente i pezzi fino al fallimento dei mondiali messicani del 1986. Il suo ciclo, iniziato con la grande avventura argentina del '78, è in effetti terminato proprio nella magica notte del Bernabeu...
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