mercoledì 31 marzo 2010

Calcio: Champions League, Bayern-Manchester United 2-1 Olympique Lione-Bordeaux 3-1


Olympique Lione-Bordeaux 3-1. E' finita cosi' l'andata dei quarti di finale di Champions League. Doppietta di Lisandro Lopez, in gol al 10' del primo tempo, al 32' della ripresa ha trasformato un rigore consolidando il vantaggio del Lione.

E' andata ai tedeschi del Bayern Monaco l'andata dei quarti di finale di Champions League contro il Manchester United. I padroni di casa si sono imposti per 2-1.

martedì 30 marzo 2010

Champions league: Inter-Cska, arbitra inglese Webb


E' l'inglese Howard Webb l'arbitro designato dall'Uefa per la gara di andata dei quarti di finale di Champions League tra Inter e Cska Mosca, in programma mercoledi' a San Siro alle 20.45. L'altra sfida tra Arsenal e Barcellona sara' diretta dallo svizzero Busacca. Per le gare di domani, l'arbitro belga Frank De Bleeckere dirige Bayern-Manchester United, mentre Lione-Bordeaux sara' arbitrata dal tedesco Brych.

Maradona operato al viso per morso cane


Maradona e' stato operato d'urgenza la scorsa notte dopo essere stato morso al viso da uno dei suoi cani: lo dicono fonti locali.

L'allenatore della nazionale argentina uscira' nelle prossime ore dalla clinica dove e' stato ricoverato. L'incidente e' avvenuto nella sua abitazione, hanno aggiunto le fonti, precisando che Diego e' stato subito portato alla clinica 'de los Arcos' del quartiere Palermo di Buenos Aires, dove e' stato medicato e quindi operato.

De Laurentiis:per Europa temo il Palermo


Palermo, Juventus e Sampdoria sono tre squadre molto ben attrezzate, ma quella che sta piu' in forma in questo momento e' il Palermo.Lo dice il patron del Napoli, Aurelio De Laurentiis. ''La Champions? Noi adesso pensiamo alla Lazio. Reja vorra' dare sfoggio di tutta la sua grande professionalita'. De Laurentiis parla poi di Lavezzi confermando che nel contratto dell'argentino (scadenza 2015) c'e' una clausola rescissoria. 'Ma nella vita contano anche i rapporti personali', sottolinea.

lunedì 29 marzo 2010

Serie A: Milan-Lazio 1-1


Milan-Lazio 1-1 nel posticipo della 31/a giornata di A. Borriello (rig.) 18', Lichtsteiner 32'.

Rossoneri falliscono l'aggancio alla Roma. Non nitido il fallo di Kolarov su Flamini, Tagliavento concede il rigore che Borriello trasforma malgrado Muslera intuisca. La Lazio reagisce e Lichtsteiner approfitta di un rimpallo fortuito in area per battere Dida da due passi. Milan piu' convinto nella ripresa. Traversa di Antonini al 54'. Buone occasioni per Dias e Abate. Milan a -3 dall'Inter.

domenica 28 marzo 2010

napoli-catania 1-0 cannavaro gol

Serie A: la Juventus torna a vincere


La Juve torna a vincere e batte 2-1 l'Atalanta nel 31/o turno di Serie A. Corrono Napoli e Fiorentina. Pari Samp e in coda di Siena e Livorno.

Chievo-Parma 0-0; Fiorentina-Udinese 4-1 (Vargas, Pepe, Gilardino, Santana, Jovetic); Juventus-Atalanta 2-1 (Del Piero, Amoruso, Melo); Livorno-Bari 1-1 (Allegretti, Tavano); Napoli-Catania 1-0 (Cannavaro); Sampdoria-Cagliari 1-1 (Guberti, Nene'); Siena-Genoa 0-0. Posticipo Milan-Lazio.



La Juventus e il Napoli agganciano la Sampdoria al quinto posto. Risale la Fiorentina. In coda pareggiano Livorno e Siena. Classifica della Serie A (31/a giornata). Inter 63, Roma 62, Milan 59, Palermo 51, Sampdoria, Napoli, Juventus 48, Genoa, Fiorentina 44, Bari 43, Parma 42, Cagliari 39, Chievo 38, Catania, Bologna 35, Lazio, Udinese 32, Atalanta 28, Siena 26, Livorno 25.

napoli-catania 1-0


Non è stata una gara semplice per gli azzurri e il risultato la dice lunga sull’andamento della stessa. L’ 1-0 finale premia gli uomini di Mazzarri, e la grande volontà dimostrata. La rete ad inizio ripresa di Paolo Cannavaro regala tre punti d’oro al Napoli adesso a quota 48 in classifica, in piena zona Europa. Del Catania dobbiamo dire che si è mosso bene in campo e ha badato più a difendere che ad offendere in avanti.
Walter Mazzarri, allenatore del Napoli, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni : “Al di là della classifica era una prova importante per noi, una prova di maturità dopo la grande partita contro la Juventus. Il Catania è una squadra che sta facendo molto bene nel girone di ritorno, ha realizzato 10 risultati utili su 11, è una squadra forte. Abbiamo fatto benissimo. Quando si gioca dopo soli due giorni si può solo responsabilizzare i giocatori. Nessuno mi ha detto che non se la sentiva e me l’hanno dimostrato sul campo. Abbiamo fatto ancora meglio con il Catania. Cannavaro in Nazionale? Paolo Cannavaro sta facendo un campionato sopra le righe. Quando sono arrivato subiva il momento di scoramento del Napoli e lui lo sentiva in modo particolare essendo napoletano. Era troppo prudente, credo di avergli dato sicurezza. Sta giocando bene, è completo, gioca bene sia di testa che di piede. Questa partita era una tappa fondamentale perchè è difficile ricaricarsi dopo soli due giorni dalla partita contro la Juventus. Inoltre a Napoli c’è pressione e poi il Catania è terzo nel girone di ritorno per punti fatti, è una squadra di valore, è in forma. Era una partita rischiosa. Bisogna dimstrare continuità, c’è stato un segnale di maturità da parte di tutti i giocatori, non a caso ho confermato in campo tutti gli 11 che hanno giocato contro la Juventus. Ora penso alla sfida con la Lazio. Saranno 7 finali. Campagnaro sulla sinistra? Quando sta bene e’ un giocatore completo, sta facendo un grande campionato. Se firmo per il 5° posto? Non cado in questo tranello”.

Paolo Cannavaro, difensore del Napoli, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “Il mio gol? Non è importante chi segna, noi pensiamo sempre alla squadra. Ci servivano i tre punti e li abbiamo ottenuti. Ci vorrà dedizione al lavoro e un grande impegno fino alla fine. Al di là di chi gioca il mister ha dimostato che siamo una grande squadra. I Mondiali? La speranza c’è sempre. Sto seguendo la strada giusta, spero di proseguirla fino alla fine. Il gol lo dedico a tutti i tifosi napoletani. La Champions? L’Europa League gia’ sarebbe un traguardo importante. Non si puo’ descrivere la gioia del gol. La Nazionale? Ripeto: io continuo a sperare. Penso al risultato della squadra. Contiamo in un finale di stagione esaltante”.

Anche Riccardo Bigon, d.s. del Napoli, ha rilasciato alcune dichiarazioni: “Quagliarella ha avuto piu’ spazi. Stiamo avendo piu’ varchi con la nuova soluzione tattica. Serve l’aiuto tra tutti i reparti. La classifica e’ corta. C’e’ la Fiorentina che sta risalendo. Guardiamo la classifica fino ad un certo punto, perche’ serve dare il massimo gara dopo gara. Pochi spettatori? Non e’ facile avere tanti spettatori nel giro di 3 giorni. I budget delle famiglie non sono eccessivi. Una promozione col Parma? Non me ne occupo io del marketing e del merchandising. Il mercato? Abbiamo osservatori su tutte le partite. Vediamo dove arriviamo quest’anno: conta molto quest’aspetto. Non dobbiamo montarci la testa, ne’ esagerare con gli obiettivi. Dipende dal numero di partite che andremo ad affrontare. In chiave Champions il budget che ci potrebbe arrivare e’ super importante. Guardate la Juve: se non va in Champions ci sono 20 milioni di euro in meno da investire sul mercato. Credo che i viola arriveranno in Europa. Il Palermo e’ una squadra forte, ma noi guardiamo alla nostra squadra”.

Alessandro Lugli

verona campione d'italia 1985



PROLOGO
Che cosa ci fanno Platini e Maradona, Junior e Rumenigge, Falçao e Zico a bocca asciutta e con il naso all'insù a guardare come una provinciale gli soffia lo scudetto? Nel campiona­to più bello e ricco del mondo si impongono i muscoli pronunciati dei ragazzi di Verona, sorpren­dendo i critici che di calcio sanno morte e miracoli, che nei paginoni estivi pronosticano sempre Juve, Inter, Roma. Invece, come nei ro­manzi alla Agatha Christie, l'as­sassino è quello che non sospetti.

Il successo della banda Bagnoli parte da lontano, dalla promozio­ne in Serie A di qualche anno pri­ma, dalla conferma di squadra forte e divertente già al primo impat­to con i big del campionato, dalla continuità con il lavoro svolto, im­preziosito dall'entusiasmo del nuovo gruppo che portò a cambia­re gradualmente una formazione che, pur dando spettacolo e otte­nendo discreti risultati, rimaneva spesso vittima della propria ine­sperienza e di qualche inevitabile ingenuità. Ma la fretta, intesa come paranoia sportiva, è un concet­to che non si addice a una città tranquilla e riflessiva come Vero­na.

Proprio come quei silenzi del nasone imbronciato, Osvaldo Ba­gnoli, tecnico contrario a ogni esa­sperazione, a prima vista distante anni luce dal mondo del pallone. Ma anche gli anni della provincia, delle squadre forti loro malgrado, del Verona dei miracoli. Umile, lavoratore, che non corre dietro ai tanti idoli o divi di cui si nutrono le grandi piazze della Penisola. Rosa corta, titolari eclettici, duttilità tat­tica, logica o parsimonia societaria che dir si voglia. Come punto di partenza non è male per chi fa del-l'arte di sapersi arrangiare un equilibrato modo di vita.

Celesti­no Guidotti, presidente dalle ca­pacità finanziarie asincrone rispetto ai colleghi che puntano in alto, diede, con l'aiuto del Ds Mascetti, i ritocchi giusti a una squadra già ben costruita negli anni. Nes­suna spesa folle, rigore sulle esi­genze del disegno tattico di Ba­gnoli e tanti stimoli da distribuire tra giocatori con la giusta voglia di riscatto e di affermazione.





L'ALCHIMISTA OSVALDO
Gli arrivi di Briegel ed Elkjaer e delle giovani promesse Marangon, Donà e Turchetta furono tesi a dare esperienza, di­namicità e solidità tecnico-atleti­ca. Completamento più che rivo­luzione. Elkjaer, bomber poten­te, arrivò a sostituire il folletto Iorio, passato alla Roma, diven­tando il completamento dell'altro attaccante Nanu Galderisi, pic­coletto imprevedibile negli ultimi sedici metri. Il bisonte danese, accreditato dalle buone stagioni in Belgio e dai gol segnati con la sua Nazionale, divenne ben pre­sto l'idolo di Verona.

Fu strappa­to alla concorrenza di società co­me Real Madrid e Milan grazie ai blitz dell'amministratore Rangogni, quando per il centravanti vicecannoniere agli Europei, sen­za l'acume manageriale e il tem­pismo, si sarebbe scatenata una vera e propria asta al rialzo. Biz­zarro, a volte incostante, ma tra­volgente come la sua falcata e i suoi tiri che ricordavano le gesta di Gigi Riva.

Anche la sua fama di provocatore un po' sbruffone fuori dal campo, con i suoi «Pas­serò alla storia»lo rese un pro­tagonista particolare delle pagine dei giornali; ma in campo, dove si trasformava, era l'esempio del­la grinta e dello spirito di squa­dra. Il suo portamento alquanto sgraziato, da lavotatore stanco a fine giornata, sa­ranno sempre l'immagine di quel meraviglioso Verona.

«Piedi grossi e cervello fino»si diceva per gli uomini pratici e one­sti, e nessuna definizione rende più giustizia al tenebroso Bagnoli. Al­lenatore per caso, uomo semplice ma dalle idee chiare, ex giocatore a tutto campo, ostile alle parole for­tuna e sfortuna, sincero come un bicchiere di Pinot. L'unica circo­stanza fortunata, ammise lui stes­so, fu la scelta di diventare allena­tore. Un uomo normalissimo, dun­que. Anche nelle scelte di campo.

Molti lo chiamavano «Lo svizzero»per la meticolosità e la precisione con cui studiava ogni dettaglio tat­tico, per come preparava la partita. E anche il suo atteggiamento sulla panchina, pronto a sfuriare e a col­pire ogni oggetto alla sua vista, lo rendeva semplicemente se stesso, gustoso come il Sangiovese e la piadina che i suoi gusti culinari avevano avuto in eredità dall'espe­rienza cesenate.

Si è costruito tec­nicamente in realtà adatte alla sua personalità come Como, Fano, Rimini e Cesena, appunto, ma il suo grande amore professionale il Settore giovanile, la Primave­ra del Como, dove l'ambiente ri­corda i sacrifici per diventare qual­cuno, quando a fine allenamento bisogna fare la coda per lavare le scarpe nei lavandini.

È arrivato a Verona dopo la promozione in A col Cesena, anche sulle sponde dell'Adige il diritto alla massima serie. Poi il campio­nato '83-84 con il meritato ingres­so in Coppa Uefa. affidava alla miscela di esperienza dei due stra­nieri, di Volpati, Marangon, Tricella alla voglia di affermarsi di Di Gennaro, Bruni, Galderisi. alle tante motivazioni di questi gio­catori si aggiungono la "rabbia" di Pierino Fanna, Fontolan del portierone Garella, i risulta­ti, a un'attenta analisi, non sono un caso. ,




OGNI TESSERA AL SUO POSTO
Lo scacchiere tattico e il mo­dulo di gioco si inseriscono per­fettamente nel calcio "all'italia­na ", sulla scia della disposizione in campo della Juventus o della Nazionale: un libero portato a co­struire il gioco, marcatori arcigni e attaccati ai garetti, terzino flui­dificante, un centrocampo abile nella rottura e nella manovra, un tornante di raccordo tra i reparti e due punte dalle caratteristiche tecnico-atletiche dissimili. Impo­stata così, la formazione scalige­ra aveva una grande forza d'impatto nel ribaltamento dell'azio­ne, soprattutto con le fughe in contropiede di Fanna e Briegel e gli sganciamenti improvvisi di Tricella.

Ma in occasione di par­tite contro avversarie più deboli, soprattutto al "Bentegodi", il Ve­rona era in grado di schiacciare gli avversari nella loro metà cam­po evidenziando le capacità tec­niche dei singoli. Decisivo, per gli schemi della squadra, fu l'in­serimento del tedescone Briegel, esuberante jolly dal passo di loco­motiva, poderoso negli stacchi aerei e soprattutto instancabile fa­ticatore. Continuo nel rendimen­to, sapeva adattarsi alla rudezza dei ruoli richiesti dalla difesa e al­le giocate da attaccante aggiunto.

Sinistro preciso, nonostante una tecnica individuale non proprio sopraffina, senso innato della po­sizione e propensione al gol lo fa­cevano un giocatore completo e invidiato a Bagnoli da tutti i tec­nici. "Turbo" Fanna doveva ri­scattare la sua esperienza luci e ombre a Torino, determinata pro­babilmente dalla frenesia con cui voleva imporsi a tutti i costi. A Verona, in una città calda ma di­screta, poteva ripartire da zero e ritrovare l'entusiasmo, tornando a svariare sulle fasce facendo am­mattire i terzini di tutto il campio­nato.

Il gruppo storico (Volpati, Tricella e Di Gennaro), garanti­va solidità ed equilibrio nello spogliatoio. L'erede azzurro di Scirea, il ca­pitano Tricella, era il pun­to di riferi­mento della squadra e del­l'allenatore. Ele­gante, la faccia pulita da studente, mingherlino e timi­do, non dava apparentemente l'impressione di poter essere un lottatore. Fu uno scarto dell'Inter, ma già dalla prima stagione in gialloblu dimostrò di saperci fare: quel suo fisico da ragazzino in via di sviluppo era solo uno scherzo ai più scettici.

Un allena­tore ha sempre un uomo in cam­po su cui fare affidamento, un giocatore che "legge" le partite meglio e prima degli altri, che du­rante la settimana tiene unito il gruppo. Domenico Volpati era tutto questo. E non a caso, l'asse difesa-centrocampo era affidato al duo Tricella-Volpati, giusta dose di valori tecnici e tempera-mentali, guida della squadra nei momenti di difficoltà. Alternava, a seconda delle esigenze (l'infor­tunio a Sacchetti), il ruolo di cen­trocampista di interdizione a quello di difensore puro, garan­tendo comunque un altissimo rendimento.

Le critiche iniziali a Bagnoli, per l'insistenza con cui utilizzava il trentaquattrenne, suo dichiarato "pallino", si dimostra­rono senza alcun fondamento. Le traiettorie impossibili e i colpi di genio sono da sempre prerogative dei grandi numeri 10. A Verona, la fantasia e l'essenza del pallone sono tutt'uno col nome di Anto­nio Di Gennaro, regista dal cal­cio sopraffino e dalla bordata im­prevedibile.
Il miglior centrocam­pista di quel campionato, nazio­nale inamovibile, assicurava l'im­prevedibilità e le geometrie ne­cessarie per mandare in gol il fol­letto Galderisi e l'ariete Elkjaer. Toscano irriverente e istrione, au­tore di scherzi da spogliatoio, ma pronto a tornare coi piedi per ter­ra con i suoi occhi profondi e lo sguardo intenso di chi fa vedere che ha già capito tutto.




VIVERE UNA FAVOLA
Fra i giocatori gialloblu c'era un furetto che il tricolore se l'era cucito sulla maglia già due volte a Torino con la Juventus. Giuseppe Galderisi, un metro e settanta di grinta e tecnica che gli permisero di "timbrare" il cartellino del gol undici volte: in acrobazia, di de­stro, di sinistro, su rigore e, udite udite, con bellissimi gol di testa. Rapido, di grande coraggio agoni­stico, Nanù si impose grazie all'u­miltà che già ai tempi della Juve lo aveva reso protagonista in un gruppo di mostri sacri, combatten­do e sgusciando tra difensori spesso rudi e spro­porzionatamente grandi ai suoi occhi.

Ma per una volta, anche Galderisi si sen­tiva protetto in campo, perché un bisonte, con cui poter divide­re gol e botte, questa volta era il suo compagno di reparto. Ra­gazzo simpati­cissimo, appas­sionato di musi­ca leggera, inci­se anche alcune canzoni ispiran­dosi a Renato Zero. In partico­lare, la canzone "Sto correndo" (uscita dopo la sconfitta con il To­rino) gli fu sicuramente di buon auspicio, e chissà se in quella me­lodia la fine della corsa non fosse proprio il traguardo tricolore.





IL CAMPIONATO: SCACCO AL RE
L'avventura ebbe inizio il 16 settembre dell'84, con il 3-1 inflit­to al Napoli di re Diego. «Siamo partiti col piede giusto»sentenziò il modesto Bagnoli. Ma forse l'i­dea di allenare una grande squadra lo investì da subito. Da allora, la bandiera del Verona sarà sempre sul punto più alto del campionato, garrendo per tutti i trenta turni.

Si alterneranno come antagoniste tut­te le grandi e qualche outsider: dall'Inter al Torino, dalla Sampdoria alla presenza sempre in­quietante della Juventus. Dopo Maradona, un'altra partita di car­tello a Verona sarà con i campioni d'Italia di Platini: Galderisi-Elkjaer e la Vecchia Signora esce dal "Bentegodi" lasciando un ipo­tetico passaggio di testimone. Ma è ancora mol­to presto per immaginare il futuro.
La tra­sferta a Torino, sponda granata, rivela la forza dei gialloblù, che pur pre­sentando una formazione rima­neggiata sbancano il "Comunale" con Briegel e Marangon dopo il momentaneo pareggio di Dossena, rivale di Di Gennaro per il ruolo di regista in maglia azzurra. La prima sconfitta arriva l'ultima di andata, a casa di una pericolan­te, l'Avellino, che aiutata da un campo al limite della praticabilità e dalle assenze di Galderisi ed Elkjaer si impone su uno spento Verona.

Si chiude il girone d'an­data col Verona primo, grazie ai soli sei gol subiti, ma l'Inter è pronta, a due sole lunghezze, per l'aggancio. Ogni annata storica ha la sua partita epocale, soprattutto se è una sfida molto sentita come Udinese-Verona. Sopra di tre gol, i ragazzi di Bagnoli si fanno rag­giungere da Zico e compagni e il campionato sembra poter sfuggire come il pallone dalle mani di Garella, che non ne prende una. Ma qui viene fuori l'esperienza e la maturità del gruppo, la voglia di andare contro il destino e gli erro­ri, e la coppia straniera venuta dal Nord porta il punteggio sul 3-5. L'Inter pareggia ad Avellino e il Verona torna solo in vetta alla classifica.

Siamo alla diciottesima, alla prossima il "Bentegodi" ospi­ta la partitissima con i nerazzurri. La mattina del 17 febbraio, sei giocatori del Verona hanno la feb­bre. Tutto volge al peggio. In quel­le condizioni, Bagnoli chiude la saracinesca alla porta di Garella impostando una partita di conteni­mento.
«È la fine» pensano in molti, quando al 39' Altobelli por­ta in vantaggio la formazione ne­razzurra. Tutti negli spogliatoi alla fine del primo tempo a recuperare forze e a bere litri di the caldo. E proprio uno degli influenzati, l'in­distruttibile Briegel, diventa im­prendibile per i nerazzurri e in tuffo di testa pareggia.

Udine e la Supersfida con l'Inter avevano da­to qualche segnale di cedimento, ma la prova di maturità dei ragaz­zi di Verona giunge a Torino con­tro la sempre temibile Juventus, dove un grandissimo gol di Di Gennaro pareggia la rete di Briaschi. Bagnoli è in silenzio stampa, ma c'è già chi giura che alla fine sarà lui a poter dire l'ultima. Il Ve­rona è sempre primo e gioca vera­mente molto bene.

E anche quan­do si gioca male e si vince, qual­cosa entra nella testa delle avver­sarie, e chissà che cosa hanno pen­sato le inseguitrici vedendo la risi­cata vittoria casalinga del Verona contro la rimaneggiata Roma.
Un Fanna incontenibile, che fa la differenza, e un Elkjaer opportuni­sta, chiudono la sofferta partita. A Firenze, il Verona torna ai suoi standard di rendimento e di gioco, con uno strepitoso Galderisi che ne fa due e regala il 3-1 ai suoi. Anche Bagnoli torna a parlare. Se non è un segno questo...

Inatteso e preoccupante arriva il secondo sci­volone stagionale, in casa contro il Torino di Serena e Schachner. Ora le inseguitrici sono a meno quattro e domenica San Siro rossonera aspetta i gialloblù. È uno 0-0 all'antica, con la squadra chiusa e pronta alla rimessa, degna di una provinciale assatanata in cerca di punti salvezza.






Non essere la Ju­ventus o l'Inter è quel vantaggio più o meno consapevole che ti dà la possibilità di poter cambiar pel­le a seconda delle partite e delle esigenze senza che nessuno gridi allo scandalo. Il gioco brioso si è perso un po' per strada, ma la squadra tiene botta con la vittoria sulla Lazio e il pareggio casalingo con il Como. A Bergamo il sogno si fa realtà con una giornata di an­ticipo, e già plana sugli stadi delle grandi d'Europa a chiedere l'ospi­talità accreditata di solito alle for­mazioni di metropoli ancora a chiedersi «Ma come hanno fat­to?».

MOMENTI DI CURVA
Tutti i protagonisti di quel Ve­rona hanno avuto il giusto ricono­scimento esaltando le fantasie dei tifosi, che non hanno lasciato cadere la pos­sibilità di sbizzarirsi con i so­prannomi e gli appellativi; così Galderisi diventò "puffo al tritolo", Elkjaer "il cenerentolo" per via del gol segnato (perdendo la scarpa) alla Juventus, Fontolan "la quercia", Garella "Garellik" e Ferroni "il gladiato­re". Con una squadra dalla tale presentazione, le avversarie non potevano che rimanere imbarazza­te coi loro nomi troppo scontati per essere all'altezza e per far so­gnare. Anche il pubblico ha dato il suo contributo con le coreografie colorate e le feste, le trasferte di massa e i bandieroni presenti in tutti gli stadi. Ovunque (un club di tifosi a Beirut!) il gialloblù ha fat­to proseliti, portando in giro per l'Italia la "matana", la cosiddetta follia veronese, coraggiosa nella sua saggezza, con quel sospetto di indifferenza e di fine teatralità che ne ha fatto un'originale esordiente del successo.

UN RAPIDO DECLINO
Ma le vicissitudini del calcio scaligero, smaltita la sbornia scu­detto, saranno contraddistinte più da ombre che da luci; soprattutto non si raggiungeranno più traguar­di tanto ambiziosi come nell'85. Iquattro campionati successivi so­no vissuti in un anonimo centro della classifica; sotto la presidenza Chiampan (subentrato nel frat­tempo a Guidoni), le scelte socie­tarie si rivelano sbagliate: ingaggi favolosi e spese folli. Come si di­ce, il Verona fa il passo più lungo della gamba, mangiandosi i ricavi dello scudetto e della Coppa dei Campioni. Gli Anni 90 sono un calvario terribile, per i gialloblù. Arriva la retrocessione in Serie B, la società è allo sbando, le rivolu­zioni tecniche creano destabilizzanti perdite di identità, Verona è la brutta copia di se stessa. Ma la battaglia più dura è tra avvocati, giudici e documenti, quando il Tri­bunale di Verona decreta il falli­mento della società e nel 1992 Chiampan è raggiunto da un ordi­ne di custodia cautelare. E' la fine dell'epopea scudetto, ma il sogno del calcio a Verona resterà sempre vivo sino ai giorni nostri.

roma scudetto 1983



PROLOGO
Siamo nell'estate del 1979. La Roma riparte, dopo la presiden­za Anzalone, con Dino Viola dietro la scrivania e il Barone Nils Liedholm a dirigere un gruppo dalle discrete potenzia­lità.
Roma è città caotica, sven­trata dai residui dei boom edilizio, la passione della gente soffoca.
La tranquillità e l'aria salubre sono i primi passi per la rifondazione.
Val Pusterla, Brunico e dintorni. Nel silenzio della montagna, anche l'italiano cantilenante del mister trova la sua musicalità e la sua comprensione. La parola più controversa e meno chiara, "zona", che nel vocabolario di Liedholm è sinonimo di razio­nalità ed equilibrio, dà il via ad un proget­to che risulterà chiarissimo. Turone, neoacquisto, fa coppia con il confermatissimo Santarini al centro della difesa, men­tre la ragnatela di centrocampo è formata dall'asse Di Bartolo­mei - Ancelotti.
Davanti, Bruno Conti inventa e Pruzzo realizza. Semplice, efficace, ma non ancora vincente.
E' un calcio di buon livello, senza troppo pres­sing e fuorigioco, funzionale e divertente, però le squadre del nord hanno un'altro passo. Non è facile per Roma e la Roma ri­salire la china.
Alla fine. però, arriva un settimo posto e soprat­tutto la conquista della Coppa Italia ai danni del Torino.



RITORNO IN ALTA QUOTA
Il calcio italiano riapre le frontiere agli stranieri. Nella vil­la di Viola, seduto a tavola, c'è un ospite d'eccezione: Zico, il miglior giocatore brasiliano del momento. Roma sogna il grande colpo, ma il Barone ha altre in­tenzioni per fare il salto di qua­lità.
Fa acquistare un certo Falcão, da poco conosciuto al grande pubblico anche se già affermatissimo in Brasile.
Il lungagnone dalla pelle chiara sembra il classico acquisto al risparmio, difficile da accettare dopo il mancato sogno Zico.
I tifosi so­no scettici, la stagione non è an­cora iniziata e già si ironizza su questa squadra che «faceva ben sperare».

Ma la formazione ingrana, raccoglie convincenti successi in giro per l'Italia e il tecnico, con la sua zona lenta, imbriglia gli avversari e sino alla fine si gioca lo scudetto in un avvincente testa a testa con la Juventus.
Al Co­munale di Torino, lo scontro di­retto decide il campionato; un punto separa le contendenti a fa­vore dei bianconeri.
L'arbitro, se lo ricordano bene tutti, è Bergamo di Livorno.
Un tra­versone taglia l'area, Turone si avventa sul pallo­ne e segna. Nemme­no il tempo di esultare e il colore giallo della bandierina rispedisce nelle gole l'urlo del gol.
Moviole e processi confermano la validità del gol, ma lo scudetto va alla Juventus.
La Roma si acconten­ta ancora una volta della Coppa Italia, ma prepara la sfida per il futuro.
L'anno seguente arriva terza, a causa di qualche infortu­nio dei giocatori chiave, ma nel frattempo esplode Sebastiano Nela, rivelazione del calcio ita­liano.





L'ANNO DELLE MERAVIGLIE
La società si rende conto che per rimanere a certi livelli è ne­cessaria una "rosa" piuttosto folta, così Viola e Liedholm pescano nel campionato italiano i giocatori con le motivazioni giuste. I presupposti per il salto di qualità ci sono e Vierchowod, Iorio, Maldera, Valigi, Nappi e Prohaska sono le novità su cui poggiano gli ambiziosi progetti societari.

Il pubblico, figlio della sua grande passione, ancora una vol­ta è perplesso: a Torino arrivano Platini e Boniek, la Fiorentina si affida a Bertoni, mentre la Ro­ma prende uno scarto austriaco dell'Inter, che dopo la cessione di Prohaska si assicura Hansi Muller.
Ma l'avventura comin­cia bene, la nebbia dei dubbi si dirada al sole di Cagliari: è uno splendido 3-1 per i giallorossi. Se il buongiorno si vede dal mattino...
Alla seconda arriva a Ro­ma il Verona, la più pericolosa outsider del campionato, e dopo una partita sofferta Di Bartolo­mei segna su rigore allo scadere.
La città comincia a credere nel lavoro del mister e della società.

La prima delle tre sconfitte in campionato avviene sotto i colpi di classe di Roberto Mancini, che porta la Samp alla vittoria resuscitando le insicurezze dei tifosi giallorossi e restituendo voce agli scettici. Il primo perio­do di quell'annata meravigliosa sarà sempre contraddi­stinta dai forti dubbi e dalle critiche, ma anche dalla convinzione di ti­fare per una squadra vera, capace di lottare alla pari con gli squadroni plurideco­rati.






DUELLO ROMA-JUVENTUS
Il campionato, si riesce a in­travedere, non sembra caratteriz­zato dallo strapotere di una sola formazione, anzi le sorprese so­no all'ordine del giorno. Dopo la trasferta di Ascoli la vetta del campionato dice Roma, Pisa (!) e Sampdoria a pari punti, ma le due antagoniste non sembrano poter creare problemi di lunga durata ai giallorossi. Arrivano le vittorie ai danni di Napoli e Ce­sena e la Roma trova la testa so­litaria della classifica. Il pubblico è entusiasta, la squadra pratica un buon calcio, alle spalle non si vedono grossi avversari e un pensiero al successo finale non è solo un azzardo d'autunno.
A gelare l'entusiasmo, ecco la solita Juventus, che a Torino ri­monta il vantaggio siglato dal sempre positivo Chierico. La sconfitta non lascia segni e i giallorossi riprendono il cammino fatto di vittorie interne e pareggi esterni. Fiorentina e Inter cado­no all'Olimpico, le inseguitrici commettono passi falsi in pro­vincia.

Il gioco convince, la squadra è solida, Pruzzo trova con facilità la porta avversaria, Iorio gioca abilmente come supporto al bomber e anche centrocampo e difesa contribuiscono al bottino di reti segnate.
La sfida al vertice è in scena a Verona, un campo difficile da cui i giallorossi esco­no con un preziosissimo pareg­gio dopo essere andati in vantag­gio.
La Roma rimane saldamen­te al comando grazie ai gol deci­sivi di Iorio, che non ha medie realizzative altissime ma che spesso, anche nelle Coppe, si in­venta uomo della provvidenza.

Nel girone di ritorno la co­stante rimane quella delle vitto­rie casalinghe e dei pareggi lon­tano dall'Olimpico. Ancelotti, Pruzzo e Di Bartolomei fanno la differenza: difficilmente sba­gliano la "lettura" della partita, anche quando non sono in gior­nata di grazia.
Proprio la costanza di rendimento diventa l'arma in più, facendo apparire i pochi punti di vantaggio un notevole scarto.

A far cadere la regola­rità del cammino roma­nista ci pensa ancora la Juventus, in una concitata partita nella capitale. Falcão porta in vantaggio i padroni di casa e la Roma, a pochi minuti dalla fine, ha sette punti sulla seconda. Ma i bian­coneri ribaltano il risultato e al tri­plice fischio i punti di vantaggio sulle inseguitrici sono tre. La Roma è al bivio che indirizza verso il successo o relega nel limbo delle occasioni perdute: i ragazzi di Liedholm si riscattano prontamente vincendo sul campo di Pisa.
La Juve, da copione, in­segue e non molla.

Un'altra otti­ma gara a Firen­ze, con un 2-2 ric­co di spettacolo e bel gioco, ma la notizia clamo­rosa giunge da Torino: il Toro rimon­ta due gol al­la Juve e si aggiudica il derby della Mole.
Nella ca­pitale, lo smog lascia il passo all'aria che si respirava 40 anni prima, nei giorni del primo scudetto. Roma ri­bolle, ma la scaramanzia della gente e la flemma del tecnico svedese impediscono che la grande solidità dello spogliatoio e la compattezza della squadra vengano di­stratte proprio nel momento che conta. Un 2-0 sul rassegnato Catanzaro e Roma prepa­ra i festeggiamenti.
In casa i gial­lorossi non sbagliano un colpo: dopo il pareggio di Milano con l'Inter, questa volta è l'Avellino a subire due reti. Il campionato è virtualmente deciso, mentre il Giudice Sportivo sanziona lo 0-2 per Juventus-Inter. Manca solo la certezza matematica, ma ormai i giochi sono fatti.





NILS LIEDHOLM, IL MAGO DEL NORD
La Roma pareggia 1-1 contro il Genoa e si aggiudica il cam­pionato. La metà giallorossa di Roma si riversa per le strade e tinge con i suoi colori la città. L'ultima di campionato è storia di festeggiamenti, standing ovation e fantasia, oltre che dei gol di Pruzzo, Falcão e Conti al malcapitato Torino.

Iniziano le feste, i monumenti vengono infiocchettati, le strisce pedonali diventano giallorosse, i tifosi laziali si chiudono in casa per evitare gli... inevitabili sfottò. Si scatenano i tantissimi vip di fede romanista, con spettacoli, canzoni e soprattutto ci si gode la supremazia indiscutibile sui cu­gini biancocelesti.

«Con il Milan ho vinto quat­tro scudetti da giocatore e uno da allenatore; pensavo restasse­ro i ricordi più belli della mia vi­ta calcistica. Questo titolo con la Roma è di gran lunga il più sof­ferto quindi il più importante...»: pensieri e parole di Liedholm, uomo semplice e geniale, spesso ermetico, sempre simpatico. Par­lava in pubblico col sorriso ac­cattivante di chi si trova lì per ca­so, quasi fuori luogo, con quelle smorfie molto più chiare delle sue a volte incomprensibili frasi. Allenatore d'altri tempi, un gran­de signore del calcio.





Eppure a molti quell'apparen­te estraneità dal calcio dei chias­sosi processi televisivi e degli in­vestimenti miliardari non è mai andata a genio. Un uomo dal co­sì illustre passato, ma dalla im­magine pubblica a volte debole e stinta, riscaldata solo da quel vi­so rubizzo e dalle venuzze incre­spate sulle gote colorite, non sembrava l'ideale per una città come Roma, dove il tifo è un'ar­te e fa scuola, dove ogni bar e ogni ufficio hanno il poster della Magica in bella mostra.

Ben altra immagine aveva la sua squadra: ordinata, tecnica, esperta e soprattutto pratica. Un centrocampo stellare con Ancelotti, Prohaska, Di Bartolomei e Falcão. Una trama di piedi ot­timi e cervelli fini, che ricuciva il gioco tra i reparti, con la fitta re­te di passaggi e gli spunti perso­nali che la zona richiedeva. «Con tanti piedi buoni, sarà difficile perdere palloni e quindi faticoso per gli altri recuperarne» sosteneva il mister, spiegando la scelta di un centrocampo agli occhi di molti costruito su doppioni.

I tifosi giallorossi non si lasciarono sfuggire l'occasione per incoronare il loro re di Roma, Paulo Ro­berto Falcão, genio delle geometrie e delle poesie del rimbalzo, l'uomo dai lanci milli­metrici, centrocampista dal tiro pulito sotto por­ta, la "summa" delle qualità che fanno di un giocatore un campione assoluto, con i suoi colpi d'estro, le para­bole impossibili, le traiettorie sconosciute alla fisica dei normali giocatori di calcio.





Prohaska era l'es­senzialità, la preci­sione negli appoggi e nei rilanci, l'ele­ganza innata di chi è cresciuto alla scuola danubiana. Ancelotti era invece esploso da poco tempo, per quel suo modo di stare in campo, con quella maturità che i giocatori raggiungono solo a fine carriera, quando ne hanno viste di tutti i colori. Tatticamente fondamentale, buon corridore dal calcio preciso e potente, formava con Di Bartolomei una coppia di gran­de spessore tecnico e atle­tico.
Diba, ca­pitano rim­pianto da tutti gli sportivi italia­ni, aveva quel destro che solo pochi possono vantare: una punizione e lui decideva la partita, una palla morta a ven­ticinque metri dalla porta ed era già un'oc­casione importante per la sua squadra. Schiera­to spesso come li­bero, im­postava il gioco a te­sta alta, facendo valere la grande esperienza e il carisma, oltre che le indiscutibili doti tecniche.




Del piccoletto Iorio si diceva che fosse un acquisto a rischio per quella fama di giocatore dal­la "dolce vita" che gli aveva impedito la completa maturazione. A Roma invece lo ricordano per i gol, gli assist, i dribbling in un francobollo d'erba, il coraggio di lanciarsi in velocità contro avver­sari che lo sovrastavano fisica­mente. Ma soprattutto viene ri­cordato per aver fatto coppia con l'idolo della Sud, il bomber Ro­berto Pruzzo, l'incubo di ogni stopper del campionato.






Avremo visto la stessa azione decine di volte: Nela o Conti scappano sul fondo, alzano la testa e indirizza­no il pallone a centro area. Il re­sto della manovra è nelle statisti­che: 131 gol in Serie A da padro­ne delle aree, con lo stacco di te­sta perentorio e impeccabile, i gol da rapinatore sotto porta e le acrobatiche realizzazioni in rove­sciata, in spaccata o in tuffo.

Luglio dell'82, Mondiali di Spagna: Pelé definì il numero 16 della Nazionale italiana il mi­glior giocatore del Mundial. E Bruno Conti, non appagato dai complimenti, andò fino in fondo vincendo quel Mondiale, con le discese folli sulla fascia interrot­te da scostanti sferzate dei suoi piccoli piedi che trasudavano estro. Il vero brasiliano della Ro­ma era lui, con i lampi di tecnica purissima, la fantasia smagliante al servizio del collettivo.

Se la squadra di Liedholm non buttava via un pallone, gran merito era di una difesa non solo arcigna e impenetrabile (seconda per gol subiti), ma anche in gra­do di giocare e costruire insieme agli altri reparti.

A guardarlo bene, Sebastiano Nela sembrava quasi un fumetto, con la faccia dura e i muscoli pronunciati, lanciato al passo di locomotiva sulla fascia, irruente a imperversare con le sciabolate di sinistro dal fondo, ma anche a imbavagliare attaccanti pericolo­si e molto più celebri di lui.

E se dalla parte opposta del campo hai Maldera che, magari in modo meno spavaldo e prepo­tente, fa lo stesso lavoro di attac­co e difesa, ti accorgi che i ruoli dei giocatori della Roma in fon­do sono solo una definizione per le figurine dei calciatori.

«Ringrazio quelli della pan­china, quelli come Chierico, Nappi, Valigi, Faccini...» disse il Barone nei cerimoniali post-scu­detto. E in un periodo dove i tito­lari erano... titolari sul serio, sen­za i turn-over e le rose chilome­triche, l'intelligenza dei sostituti era fondamentale per gli equili­bri di una squadra, e soprattutto quando giocatori come Falcão e Conti risentivano di qualche lie­ve indisposizione, le risposte del­la panchina erano andate oltre le più rosee aspettative.

A completare la squadra, i due centrali difensivi: Ubaldo Ri­ghetti, cresciuto nel vivaio della Roma, capace di ritagliarsi un notevole spazio quando Di Bartolomei assumeva compiti di centrocampi­sta, e Pietro Vierchowod, inossidabile mar­catore dal fisico e dalla velocità fuori dal comune.





PROFUMO DI VIOLA
Erano le regine, in campo e fuori, Roma e Juventus. Regala­vano emozioni, gioco e titoloni sui giornali. Alla guida delle ri­spettive società giganteggiavano Boniperti e Viola, espressione massima dell'arguzia e del senso dell'ironia. E le frecciate, a denti stretti, con gli occhi socchiusi, nelle quali trovava un certo gusto anche Agnelli col suo nobile di­stacco. «Di fronte al potere di Agnelli mi sento quasi una moz­zarella...» ironizzava Viola par­lando del Governo del calcio e degli arbitri. «Viola? È bravissimo, ha vinto il cin­quanta per cento degli scudetti del­la Roma...» repli­cava il numero uno della società bianco­nera. Ma tra i due c'era anche tanto ri­spetto, una gran si­gnorilità.

Viola era co­sì: pungente, a volte antipati­co, dotato di fascino e ca­risma, soprat­tutto di intelligenza e della furbizia propria dei grandi personaggi. Aveva trovato una Rometta salva all'ultima giornata con uno 0-0 molto sbiadito ad Ascoli (anche i marchigiani si salvarono gra­zie a quel punticino...), Trigoria preda della confusione, il bilan­cio societario in tragiche condi­zioni.

Poi strappò il mister fresco di stella al Milan, acquistò Falcão, riorganizzò la società e riempì lo stadio. E, come inevitabile conseguenza, arrivarono i successi della squadra e quelli personali, come l'elezione a Senatore. Ma soprattutto vinse due volte la Coppa Italia e uno scudetto, oltre alla lotta senza esclusione di col­pi al potere e soprattutto alla Ju­ventus.





Fresca di tricolore, la Roma ha la grande occasione per passa­re alla storia del calcio interna­zionale. In campionato chiude a due punti dalla Juventus, ingag­giando Cerezo al fianco di Falcão e Graziani a far coppia con Pruzzo.
Ma quello che ri­marrà impresso nella memoria dei tifosi sarà la lunga cavalcata nelle notti di Coppa dei Cam­pioni.
La Roma arriva in finale all'Olimpico, contro un grandis­simo avversario: il Liverpool, squadra inglese di primissimo piano. L'Olimpico dà il meglio di sé, l'atmosfera è di quelle indi­menticabili, Roma si paralizza davanti ai televisori, molti si tro­vano nei bar per neutralizzare tutti insieme la tensione.
Segna Neal, ma Pruzzo di te­sta pareggia.
I novanta minuti re­golamentari e i tempi supple­mentari non sono sufficienti ad aggiudicare il prestigioso trofeo. I calci di rigore non portano for­tuna ai giallorossi, che cadono to gli applausi di un pubblico mai così vicino alla squadra. Pri­ma di lasciare Roma, Liedholm vince comunque un'altra Coppa Italia, come regalo d'addio per cinque anni di calcio irripetibili...

palermo da sogno 3 perle di miccoli al bologna


Miccoli mattatore nel secondo anticipo del 31/o turno di serie A. Palermo-Bologna finisce 3-1 con tripletta dell'attaccante rosanero. Al 10' Pastore serve in verticale Miccoli che segna con un destro rasoterra. Al 38' il Bologna pareggia con Adailton sorprende Sirigu con una punizione di sinistro. Ma al 43' ancora Miccoli trasforma il rigore concesso per fallo su Hernandez. Al 78' Liverani lancia Miccoli per il suo terzo gol. Palermo al quarto posto con 51 punti.

serie A: Roma a -1 dall'Inter


- Zero tituli, per ora, ma tanta felicità. Claudio Ranieri fa lo sgambetto per la prima volta a José Mourinho, la sua Roma riapre il campionato a sette turni dal termine battendo con sofferenza ma con merito l'Inter per 2-1. E ora gode anche il Milan che ha domani l'assist per portarsi a -1 in compagnia dei giallorossi. E' figlia del cuore e della tecnica la vittoria della Roma che non fallisce la partita dell'anno di fronte a 70 mila innamorati.

La fa sua la squadra di Ranieri portata per mano da De Rossi e Pizarro, ma il gol decisivo lo segna Luca Toni, migliore in campo, che torna in corsa per il mondiale con una gara sontuosa. L'Inter ha meno freschezza del previsto, pareggia con un gol di Milito ma c'era Pandev in fuorigioco. Però la grande grinta dei campioni d'Italia viene comunque fuori dato che la fortuna si allea con la Roma: per tre volte pali e traverse si sostituiscono a Julio Sergio. L'ultimo, in recupero, è di Diego Milito, attaccante di razza, autore di una spettacolare prestazione. La Roma gioca meglio e imbriglia a lungo un'Inter col fiato corto. I tanti punti che si è fatta risucchiare, il pensiero prevalente della Champions, il caso Balotelli concorrono a far pensare a una squadra in involuzione, capace comunque di trovare sempre il gol ma imballata in difesa con Julio Cesar che ha sulla coscienza il primo gol, Samuel imbrigliato da un Toni straripante. A centrocampo Cambiasso e Sneijder, continui e lucidi ma troppo nervosi, non vengono supportati a sufficienza, e davanti Etòo collabora poco con Milito. Al contrario Ranieri indovina tutto: Burdisso è implacabile, Cassetti ordinato e continuo, Riise più disciplinato del solito. Ma è a centrocampo con Pizarro e De Rossi che la Roma fa la differenza, poi può contare su un Toni in stato di grazia che guadagna punizioni, ammonizioni, dà respiro alla squadra e chiude il conto al momento opportuno. E c'é spazio pure per il ritorno di Francesco Totti per una manciata di minuti. Toccherà al capitano ora provare a trasformare la speranza in realtà perché la corsa scudetto è riaperta e la Roma, a -1, ha un calendario migliore delle sue avversarie. Scendono in campo le squadre e l'urlo dei 70 mila dell'Olimpico è da brividi. Lo spettacolo è in linea con l'importanza della sfida scudetto. L'Inter si nasconde un po', la Roma sorniona si mette in mano a De Rossi e Toni, che a centrocampo e in attacco si dimostrano subito in palla. Mourinho e Ranieri dirigono le operazioni con aplomb, ma sono i romanisti a mantenere gli avversari lontano dall'area. Al primo affondo vero la Roma passa al 16': punizione di Pizarro, testa di Burdisso che schiaccia a terra verso la porta, c'é una gran ressa e Julio Cesar interviene goffamente, arriva De Rossi come uno sparviero e fa secco il portiere. Poi si bacia il parastinchi e guarda verso il cielo. L'Olimpico esplode e l'Inter schiuma rabbia: al 17' una bordata di Sneijder da 30 metri si perde di poco fuori. Gli risponde al 31' Riise e la palla va di poco fuori. L'Inter è in difficoltà e soprattutto fisicamente soffre la continuità giallorossa con De Rossi, Pizarro e Perrotta che comandano a centrocampo mentre Menez alterna ingenuità (si fa ammonire) a spunti d'autore. Al 37' nuovo bolide su punizione, stavolta di Vucinic, consente il riscatto a Julio Cesar che devia in angolo.

I gialli a Samuel, Thiago Motta e Zanetti testimoniano le ambasce dell'Inter che a fine tempo preme: al 41' Samuel sale in cielo e di testa fa tremare la traversa, poi Milito protesta dopo un contrasto in area di Burdisso e si chiude un tempo ben giocato, all'altezza delle attesa. L'Inter si ripresenta in campo col dente avvelenato e sfiora subito il pari: al 3' spunto splendido di Milito, tiro improvviso sulla traversa, poi al 6' tocca a Sneijder approfittare di un'incertezza giallorossa, tiro da fuori che Julio Sergio respinge. La Roma ricomincia a tessere e su angolo Toni al 9 di testa all'indietro manda di poco alto. Mourinho vuole stringere i tempi: via Stankovic e dentro Pandev.

Ma i nerazzurri si vedono poco ma sono pericolosi lo stesso: il pari arriva al 21': Sneijder serve Pandev, apertura per Milito che ha lo spunto vincente, ma le moviole dimostrano che la posizione di Pandev era irregolare e quindi il gol era da annullare. La Roma non demorde e al 27' si riporta in vantaggio: Taddei a trequarti campo tenta il tiro in porta, il pallone viene intercettato da Toni a centroarea. L'attaccante si gira da manuale e trova l'angolino. L'Olimpico diventa una bolgia e mOurinho inserisce Chivu e Quaresma. La Roma cerca di gestire e inserisce dopo 42 giorni Francesco Totti.

Inter nervosa ma ficcante: prima al 43' Etòo manda di poco alto, poi al 48' Milito colpisce un altro palo con un'altra micidiale fiondata. La Roma ringrazia e festeggia, l'Inter è a un punto, il campionato godrà di sette giornate finali da centellinare. L?inter ora si deve concentrare sulla Champions e deve ritrovare un po' di serenità, oltre che un po' di freschezza atletica.

serie B: A tutto Lecce


Nella 32/a giornata del campionato di calcio di serie B il Lecce vince il derby con il Gallipoli.

Pareggi per Cesena e Sassuolo. Risultati: Albinoleffe-Brescia 1-1; Ascoli-Empoli 2-1; Cittadella-Sassuolo 0-0; Crotone-Salernitana 2-0; Frosinone-Ancona 1-1; Grosseto-Cesena 1-1; Lecce-Gallipoli 1-0; Mantova-Vicenza 1-0; Modena-Piacenza 0-1; Triestina-Padova 2-1. Reggina-Torino domani alle 12.30.


Dopo la 32/a giornata di serie B il Lecce allunga in classifica e ora ha sei punti sul Cesena e sul Sassuolo. Quarte Grosseto e Brescia.

Lecce 58; Cesena 52; Sassuolo 51; Grosseto e Brescia 49 Torino e Cittadella 47 Ancona (-2) 46; Empoli e Crotone(-2) 44; Modena e Ascoli 43 Triestina 42; AlbinoLeffe e Piacenza 41 Frosinone 40 Vicenza 39; Gallipoli, Padova e Mantova 37; Reggina 36; Salernitana 16 (-6). Reggina e Torino una partita in meno.

sabato 27 marzo 2010

Storie di calcio Carlo Petrini: ecco come ci drogavano



"Iniezioni e flebo, vent' anni fa prendevamo di tutto: al confronto ormoni e creatina sono caramelle"

"Ho cambiato pelle dalla morte di Diego. Tumore al cervello. Porto dentro il rimorso di non averlo visto vivo: ero fuggito in Francia nel 1989, spaventato dalle minacce di gente pericolosa, dopo il fallimento di alcune finanziarie che si sono mangiate anche i risparmi della mia attività professionistica".




Quanto?
"Miliardi. Un pacco di quattrini buttati via, poi una villa a Catanzaro e altri immobili sacrificati nella voragine del dissesto. Fossi arrivato accanto a Diego, avrei rischiato la pelle e, soprattutto, messo a repentaglio l'incolumità della moglie e degli altri due figli. Oggi me ne pento e i guai servono paradossalmente ad alleggerire gli incubi. Sto diventando cieco a causa di due glaucomi. Prima sono stato rovinato dalle donne? Prima cercavo l'impossibile, sicuro di non sbagliare mai, di poter vivere impunito, al di fuori d'ogni regola. Centravanti nato, avevo talento e avrò realizzato un centinaio di gol, fra A e B, senza fare un sacrificio lecito per il football".

Cominciamo dal Genoa, la società che lancia Petrini.
"Sono figlio d'un muratore e d'una casalinga. Mio padre è morto a quarant'anni, tetano. Anche l'unica sorella morì sedicenne di diabete. Sembrava andare meglio a me: proveniente dal vivaio, entrai in prima squadra il 6 gennaio 1965, Genoa - Pro Patria di serie B. Tuttavia i fatti strani arrivano nella stagione successiva, allenatore G.G. e, vice, mister V. Perdevamo spesso e occorreva qualche soluzione per risalire in classifica. Allora qualcuno in società prepara le punture "rigeneranti". Sono iniezioni di non so quali sostanze associate; il liquido prevalente, all'interno della siringa, è rosso acceso. Noi accettiamo le siringate durante la settimana e prima d'ogni partita. E' per il bene del Genoa. Ricordo che nel ritiro di Ronco Scrivia le dosi aumentarono, ci iniettavano queste sostanze una volta al giorno. Ricordo Giuliano Taccola, bianco come un cencio e poi paonazzo al termine d'una partita di quel tormentato campionato. Era adagiato sul lettino dello spogliatoio e, tutt'intorno, noi compagni avevamo paura. Respirava a fatica. Giuliano, passato alla Roma, morì circa due anni dopo. Noi eravamo paurosamente bombati: al confronto, creatina e ormoni della crescita diventano caramelle".






E i controlli antidoping?
"I medici preposti alle pipì avevano zero possibilità di scoprire i nostri imbrogli. Avevamo pronti tre accappatoi con doppia tasca e facevano pipì in una provetta da clistere quelli che non giocavano. Chi doveva presentarsi, nascondeva la provetta sotto l'accappatoio e ne spremeva il contenuto nel barattolo federale. Nessun medico, finchè sono rimasto in attività, avvertì l'obbligo d'accertare, da vicino, cosa cavolo combinassimo nel ripostiglio, davanti al rubinetto dell'acqua. Nessuno controllava gli accappatoi e, spesso, allungavo la pipì con l'acqua per sbrigarmi. Come gli altri. E la buffonata dura da decenni, mi risulta che poco o niente sia cambiato".

Poi la stagione degli spareggi per evitare la C. Giusto?
"Sì, il Genoa s'affida prima a F. e poi quindi a C., senza fortuna. L'annata disastrosa ci porta agli spareggi: quattro squadre che hanno due posti per salvarsi dal baratro. E' giugno inoltrato: tornano a somministrarci un cocktail di farmaci, tenuto dentro bottigliette rotonde di vetro, con tappi adatti per l'aspirazione della siringa. Era già successo durante il campionato, sul neutro di Ferrara, dove disputammo Verona - Genoa. In quell'occasione, avevano scelto cinque di noi, cinque cavie. Il liquido era chiaro, filature gialle e rosse. Ci siringarono un'ora prima dell'inizio della partita e ci raccomandarono di fare un riscaldamento lento, senza scatti. Dopo venti minuti mi scoppiò il fuoco in corpo, ero un assatanato che, saltando, arrivava al soffitto dell'androne dello stadio ferrarrese, alto quasi tre metri. In campo ci ritrovammo trasformati, saltavamo addosso agli avversari con la lingua gonfia e una bava verdognola attaccata alla bocca. Credo non cambiassero nemmeno gli aghi delle siringhe. Di certo, le "bottigliette miracolose" non erano sterilizzate. Passavano il batuffolo di cotone, imbevuto in un pò d' alcool e ci facevano la puntura. Così, pieni di propellenti, arrivavamo pure dove non si poteva, ignorando la soglia della fatica. Scatenati, inesausti e insonni fino alle quattro - cinque del mattimo. Infine stremati, dentro a un bagno di sudore".

Il primo spareggio è Genoa - Venezia, 36 gradi dentro lo stadio di Bergamo. Qualche retroscena inquietante?
"In quell'occasione un mio compagno volle esagerare: una siringata prima del via e un'altra, identica, durante l'intervallo. Beh, schierato accanto a me, prendeva botte, si proponeva e reagiva senza un attimo di respiro. Pareva Pelè, un drago. Il suo cuore arrivava a un livello pazzesco di battiti e accelerava sempre. Restammo in B, ma per fortuna saltai gli ultimi tre spareggi per infortunio. Fu un bene, mi venne risparmiato l'avvelenamento totale subito dagli altri. Più tardi, li mandarono a San Pellegrino per disintossicarsi; successivamente, ritenuti cotti e inservibili, vennero ceduti nelle categorie inferiori. A me toccò il Milan, collocazione prestigiosa".

Petrini, a quel punto lei era a un passo dalla gloria. O no?
"Purtroppo no, la partenza fu difficoltosa. Bloccato da uno strappo alla gamba destra, mi sottoposi ad interminabili sedute di Rontgen terapia. La stessa di cui parla Saltutti, quando accenna alle radiazioni che avrebbero provocato la leucemia di Beatrice. Mi sono venuti i brividi. Terapie a parte, nel Milan ho avuto la sensazione di recuperare un pò di normalità. Certo, realizzai appena due reti per dieci presenze, ma partecipai alla vittoria rossonera in Coppa Campioni. Nereo Rocco mi stimava, mi ripeteva che cambiando testa avrei sfondato. Giocai a Malmö, contro gli svedesi. E nella domenica seguente non ci fu nessun controllo antidoping per il Milan. Era una prassi sottintesa per le formazioni italiane impegnate in Europa durante la settimana".

Il declino parte da Varese?
"Ero stato operato di menisco al ginocchio destro e nel nuovo ambiente trovai un dottore, medico di fiducia d'uno straordinario campione. Arrivò a praticarmi tre infiltrazioni quotidiane nella caviglia, visto che mi ero anche procurato una grossa distorsione nel ritiro precampionato. E poichè il ginocchio sotto sforzo si gonfiava, le infiltrazioni diventarono quattro per due settimane consecutive. Non so quale mistura mi rifilasse; so che ora quando cambia il tempo mi riprendono dolori lancinanti alle caviglie e alle gambe. E che in Francia mi è stato diagnosticato un glaucoma che s'è divorato l'occhio sinistro. Anche l'altro bulbo oculare è pressochè distrutto per lo stesso motivo. L'ho appreso nel 1989, a 41 anni. Ora non posso guidare, nè attraversare una strada al tramonto. I medici francesi mi riferirono che questa malattia, causata dall'incremento della pressione interna, colpisce in genere i vecchi, gli ultrasettantenni. Possibile che le numerose visite d'idoneità professionale non abbiamo riscontrato niente? Squalificato per colpa del Totonero, ripresi dopo quarantadue mesi fra Rapallo, Cuneo e Savona. E, probabilmente, i miei problemi dipendono da tutte le porcherie ingurgitate, compresi chili di Micoren, ora proibito dai regolamenti. A Varese si erano inventati una ricetta contro il freddo invernale. Prima della gara, prendevamo due o tre palline di Micoren più un caffè con dentro due aspirine tritate. Il dottore ripeteva che in questo modo portavamo a temperatura giusta i muscoli e avremmo stracciato gli avversari intirizziti".

I romanisti apprezzarono il bomber Petrini. Fuggì presto la stagione 1975-76.
"Nella Roma funzionai abbastanza. Ma anche lì, se volevi una probabilità di trovare posto in squadra, dovevi sottoporti alla rituale flebo del sabato. Il massaggiatore m'avvertì in fretta: "Guarda che è nelle nostre abitudini e non puoi sottrarti alla regola...". A Roma conobbi tante donne e spesso, a poche ore dall'impegno, mi accadeva di fare l'amore in qualche albergo. A Roma basta indossare la maglia giallorossa e tutti s'inginocchiano".

Fu a Cesena il suo primo turbamento.
"Ero agli sgoccioli, vado all'ospedale civile per il chek-up di prassi e l'onestà d'un sanitario mi toglie il sonno. Mette a confronto due lastre e mi fa vedere come dovrebbe essere il ginocchio d'un trentenne. Accanto c'è la radiografia del ginocchio d'un ottuagenario; proprio il mio ginocchio scassato. Ormai sono nel giro e tiro avanti a infiltrazioni, pillole, flebo. Raschio dal barile quanto resta, le ultime energie. Il calcio è una roulette pazza, chi va in disgrazia non rimedia soccorritori".

Ecco perchè Petrini affonda senza gridare aiuto.

Fonte: Intervista di Gianni Melli

1980: calcioscommesse


C'è una data e un'ora: le cin­que della sera di domenica 23 marzo 1980. Quel gior­no, in quel preciso momento, il calcio italiano - con le sue storie, i suoi ricordi, la sua retorica e i suoi campioni - fu sbattuto in ga­lera. Quando i carabinieri, alle cinque della sera, si presentarono nei principali stadi della Serie A per ammanettare - sì, amma­nettare - alcuni tra i più famosi calciatori di Serie A, fu chiaro a tutti che quello non era uno scan­dalo come gli altri. Era, per mol­ti italiani, la fine – dolorosa - di una passione: la scoperta di un tradimento. La conferma di un sospetto al quale noti si voleva credere: non si trattava più di una partita truccata, ma di un incredi­bile intreccio di combine che coinvolgeva mezza Serie A. Una farsa: ecco cos'era diventato il gioco che da ottant'anni riempi­va le domeniche degli italiani. L'irruzione dei carabinieri negli stadi non fu un fulmine a ciel se­reno: tre settimane prima, il 1° marzo, la Procura della Repub­blica di Roma aveva messo a verbale la confessione fiume di Massimo Cruciani, l'uomo che aveva dato corpo a bisbiglìi sem­pre più inquietanti. Cruciani è un commerciante di frutta romano sull'orlo di una crisi di nervi (e del tracollo economico). Al ma­gistrato racconta che le sue di­sgrazie hanno avuto inizio quan­do tale Alvaro Trinca, proprieta­rio del ristorante Le Lampare, gli ha presentato alcuni dei suoi clienti eccellenti: i calciatori del­la Lazio Wilson, Manfredonia, Giordano e Cacciatori. Per Cruciani fu facile fare amicizia, anche a causa - confessa - «del mio interesse per il calcio e per le scommesse, clandestine e non, che ruotano intorno al mondo del pallone, i quattro giocatori, in proposito, mi dissero chiaramente che era possibile "trucca­re" i risultati delle partite, con il che, ovviamente, scommettendo nel sicuro. Accettai l'idea e deci­si di intraprendere una serie di attività di gioco d'accordo con ì suddetti giocatori e gli altri che, a volta a volta, come mi si disse, si sarebbero dichiarati disponì­bili». Il giochino è semplice: i calciatori prendono accordi con colleghi di altre squadre per ag­giustare la tal partita, Cruciani punta, anche per conto loro, una bella somma al totonero e alla fi­ne ci si spartisce il gruzzolo. Fa­cile, no?

Un gioco pericoloso
Eppure, il racconto di Cruciani prende subito una piega vaga­mente kafkiana: «Iniziò così, per me, una vera e propria odissea che mi ha praticamente ridotto sul lastrico ed esposto a una se­rie preoccupante di intimidazio­ni e minacce». Che cosa era successo? Che all'improvviso il complice era diventato la vitti­ma della cosca del pallone, re­stando intrappolato in una morsa sempre più asfissiante. «Presi contatti con il giocatore del Palermo Magherini per combinare il risultato della partita Taranto-Palermo», racconta Cruciani. Che viene pregato di giocare, per conto dello stesso Magherini, 10 milioni sul pari. Altri 10 milioni sono da girare a due giocatori del Taranto per "ratificare" l'accor­do. E siamo a meno 20. Poi i 160 milioni che Cruciani scommette per conto suo e di altri amici sul­la stessa partita. E se il pareggio sicuro non fosse poi così sconta­to? Infatti: «Contrariamente ai patti», sospira il povero Crucia­ni, «vinse il Palermo». E figurar­si se il gentleman Magherini rifonda l'amico dei 20 milioni anticipati. Risultato: meno 180. Per sdebitarsi, però, il giocatrore del Palermo offre un'altra dritta sicura: la vittoria del Vicenza sul Lecce abbinata a quella del Milan sulla Lazio.
Non c'è bisogno di andare oltre: Cruciani per rientrare continua ad anticipare i soldi delle puntate e le somme destinate alle squa­dre compiacenti, mentre il "giro" si allarga sempre di più. Ma ca­pita troppo spesso che qualcosa vada storto: il debito aumenta e, poiché i signori calciatori non hanno alcuna intenzione di met­tere mano al portafogli, si rende necessaria una nuova scommes­sa. Cosi via, finché il povero Cruciani - ormai rovinato da perdite di «centinaia e centinaia di milioni» e minacciato sempre più insistentemente dagli allibra­tori clandestini, fa l'unica cosa che gli è rimasta da fare: denun­ciare tutto all'autorità giudizia­ria.

Dal campo al carcere
Una volta che si è deciso al gran­de passo, l'esasperato commer­ciante non salva nessuno. È una bomba: tra le squadre coinvolte, ci sono anche Avellino, Ge­noa, Bologna, Juventus, Pe­rugia e Napo­li. Tra i gioca­tori, il fior fio­re della Serie A: Savoldi, Zinetti, Co­lomba, Dossena e Petrini del Bologna, Agostinelli e Damiani del Napoli, Paolo Rossi, Casarsa e Della Martira del Perugia, Gi­rardi del Ge­noa.


La notizia è sconvolgente, ma subito c'è chi contrattac­ca: sarà poi tutto vero?
«Verissimo», ammette in una clamorosa intervista a Repubblica il giocatore della Lazio Montesi, che poi però, di fronte alla reazione isterica del cosid­detto entourage, si rimangia tut­to.
Anche Cruciani e Trinca (il ri­storatore) fanno incredibilmente marcia indietro, al punto che gli stessi avvocati, stizziti, li pianta­no in asso. Ormai però non è più possibile ritrattare: il 9 marzo Trinca viene arrestato con l'ac­cusa di truffa, tre giorni dopo si costituisce anche Cruciani verso il quale era stato spiccato un mandato di cattura. Intanto tutti i calciatori chiamati in causa dalla prima confessione del commer­ciante vengono raggiunti da un ordine di comparizione. È in questo frangente che si colloca l'incredibile domenica delle manette. All'Adriatico di Pesca­ra, la Lazio ha appena perso 2-0, quando all'uscita degli spogliatoi vengono arrestati in un colpo so­lo Cacciatori, Wilson, Giorda­no e Manfredonia. Nello stesso momento a San Siro, dopo Milan-Torino, vengono bloccati Albertosi e Giorgio Morini, men­tre a Roma analogo destino tocca ai perugini Della Martira, Zec­chini e Casarsa. Insieme a loro, finiscono a Regina Coeli Pelle­grini dell'Avellino, Magherini del Palermo, Merlo del Lecce e Girardi del Genoa. E sono tan­tissimi i giocatori invitati a pre­sentarsi per accertamenti: tra questi, Paolo Rossi, Dossena, Savoldi e Damiani.
È il crepuscolo degli dei, l'opi­nione pubblica è attonita, la Na­zionale (che sta preparando gli Europei di Roma) mutilata: pro­prio Rossi e Giordano avrebbero dovuto essere i cardini dell'attac­co azzurro.




Le sentenze
Le inchieste - della magistratura ordinaria e di quella sportiva - sono lunghissime.
La prima sen­tenza definitiva è quella della CAF, che retrocede in Serie B il Milan e la Lazio e penalizza di cinque punti per il campionato successivo Avellino, Bologna e Perugia. Severe le squalifiche: il presidente del Milan, Felice Co­lombo, è inibito a vita, quello del Bologna, Tommaso Fabbretti, per un anno. E i giocatori?
Sei anni di squalifica per Pellegrini, cinque per Cacciatori e Della Martira, quattro



per Albertosi, tre e mezzo per Petrini, Savoldi, Giordano e Manfredonia, tre per Wilson e Zecchini, due per Paolo Rossi.
E poi un anno e due mesi per Cordova, un anno per Morini, sei mesi per Chiodi, cinque per Negrisolo, quattro per Montesi, tre per Damiani e Colomba. Un'ecatombe, che fa il vuoto non solo in campo, ma anche e soprattutto sugli spalti. Il calcio perde di colpo la sua - già com­promessa - credibilità e solo la vittoria degli azzurri ai Mondiali spagnoli dell'82 riporterà l'entu­siasmo negli stadi. E la sentenza della magistratura odinaria? Arriva a dicembre inol­trato ed è per certi versi sorpren­dente: tutti i giocatori implicati nella vicenda vengono assolti «perché il fatto non sussiste». Solo una delle persone coinvolte nell'intrigo viene condannata (a una pena pecuniaria): Cruciani. E il cerchio si chiude...



Ecco il testo originale dell'esposto presentato da MASSIMO CRUCIANI, scommettitore «beffato», alla Procura della Repubblica di Roma: un'autentica bomba innescata per il calcio italiano


Ill.mo Signor Procuratore, io sottoscritto Cruciani Massimo nato a Roma, il 15-8-1948, sottopongo alla cortese attenzione della S.V. Ill.ma il seguente esposto, i fatti sottoelencati sono necessariamente scarni data la estrema complessità della vicenda; per cui, nel pormi a completa disposizione della S.V. Ill.ma fornirò in prosieguo tutti i dettagli che la S.V. medesima riterrà utili ai fini dell'indagine. Verso la metà del 1979, frequentando il locale ristorante «Le Lampare», di proprietà del Sig. A. T. che rifornivo di frutta possedendo un magazzino all'ingrosso, ebbi modo di conoscere alcuni giocatori di calcio, tra i quali in particolare Giuseppe WILSON, Lionello MANFREDONIA, Bruno GIORDANO, Massimo CACCIATORI.

Intervennero gradualmente, con costoro, dei rapporti di amicizia, alimentati dal mio interesse per il calcio e per le scommesse clandestine e non che ruotano intorno al mondo del pallone. I quattro giocatori, in proposito, mi dissero chiaramente che era possibile «truccare» i risultati delle partite, con il che, ovviamente, scommettendo nel sicuro. Mi precisarono, a titolo di esempio, che era scontato il risultato della partita PALERMO-LAZIO (amichevole) verificatasi, mi pare, nel mese di ottobre 1979 attraverso l'intervento dì Guido MAGHERINI, giocatore del PALERMO.

Accettai l'idea e decisi di intraprendere una serie di attività di gioco d'accordo con i suddetti giocatori e gli altri che a volta a volta, come mi si disse, si sarebbero dichiarati disponibili. Iniziò così, per me, una vera e propria odissea che mi ha praticamente ridotto sul lastrico ed esposto ad una serie preoccupante di intimidazioni e minacce.

Come ho già detto, tutta la vicenda è costellata di tali e tanti episodi dettagliati che, in questa sede, mi limiterò ad illustrarne alcuni, riconfermandomi a disposizione della S.V. Ill.ma per tutto il resto. Successivamente, ad esempio, alla partita PALERMO-LAZIO accennata, presi contatti con il MAGHERINI per combinare il risultato della partita TARANTO-PALERMO prevista per il 9-12-1979. In proposito il MAGHERINI organizzò il pareggio delle due squadre a patto che io giocassi sul risultato, nel suo interesse, 10.000.000 e altri 10.000.000 consegnassi a ROSSI Renzo e QUADRI Giovanni del TARANTO. Contrariamente ai patti, vinse il PALERMO. Il MAGHERINI, a tal punto, avrebbe dovuto rifondermi i 10.000.000 giocati per lui ed i 10.000.000 consegnati ai giocatori del TARANTO, ma si rifiutò. Inoltre in seguito al mancato rispetto degli accordi ho perduto, insieme ad altri scommettitori che meglio preciserò in prosieguo, L. 160.000.000 presso svariati allibratori clandestini.

A seguito delle mie rimostranze, il MAGHERINI mi promise il risultato certo della partita LANEROSSI VICENZA-LECCE. Nella stessa occasione egli combinò, d'accordo con i citati giocatori della LAZIO il risultato MILAN-LAZIO (entrambe le partite ebbero luogo il 6-1-1980). Per quanto riguarda la Partita LANEROSSI VICENZA-LECCE il MAGHERINI mi mise in contatto con Claudio MERLO giocatore del LECCE, il quale ricevette da me un assegno di L. 30.000.000 assicurando la sconfitta della sua squadra. Per quanto riguarda l'altra partita MILAN-LAZIO i giocatori biancazzurri GIORDANO, WILSON, MANFREDONIA e CACCIATORI si accordarono con Enrico ALBERTOSI del MILAN affinché si verificasse la vittoria di quest'ultima squadra. Per quest'ultima partita consegnai tre assegni da 15.000.000 e due da 10.000.000 a GIORDANO, WILSON, MANFREDONIA, VIOLA e GARLASCHELLI, affidandoli materialmente a MANFREDONIA. Ulteriore assegno di L. 15.000.000 consegnai a CACCIATORI Massimo (Lazio) il quale provvide ad incassarlo intestandolo a certo sig. Orazio SCALA.

Il Milan, da parte sua, contribuì alla «combine» con l'invio di L. 20.000.000 liquidi che mi portò a Roma, nel mio magazzino di Via (omissis) il giocatore di tale squadra Giorgio MORINI, due giorni dopo il rispettato esito dell'incontro. In conseguenza nei citati accordi, ed in cambio del loro contributo, WILSON, MANFREDONIA, GIORDANO e CACCIATORI mi chiesero di puntare per loro 20.000.000 sulla sconfitta della LAZIO. La vincita di lire 80.000.000 d'accordo con i quattro anziché consegnarglieli avrei dovuto usarli per pagare i giocatori dell'AVELLINO (Cesare CATTANEO, Salvatore DI SOMMA, Stefano PELLEGRINI) i quali avrebbero dovuto perdere contro la LAZIO la settimana successiva.

Io ed altri scommettitori, in base agli accordi di cui sopra, abbiamo scommesso per «l'accoppiata» costituita dai due risultati concordati, circa 200.000.000 di lire: cifra perduta per il mancato rispetto dell'impegno assunto dalla squadra leccese la quale ha pareggiato 1-1. Tutto quanto sopra, costituisce una esemplificazione di come si svolgessero i moltissimi episodi di cui è costellata questa storia, che, come più volte precisato illustrerò in prosieguo, nei dettagli, alla S.V. Ill.ma.

Desidero peraltro precisare che le squadre coinvolte in questa storia sono anche l'AVELLINO, il GENOA, il BOLOGNA, la JUVENTUS, il PERUGIA, il NAPOLI. Ciò nel senso che i relativi giocatori o meglio alcuni di essi come Carlo PETRINI (Bologna), Giuseppe SAVOLDI (Bologna), PARIS (Bologna), ZINETTI (Bologna), DOSSENA (Bologna), COLOMBA (Bologna), AGOSTINELLI e DAMIANI (Napoli), Paolo ROSSI e DELLA MARTIRA e CASARSA (Perugia), GIRARDI (Genoa) ed altri hanno partecipato agli incontri truccati percependo denaro o richiedendo, in cambio dei loro favori, forti puntate nel loro interesse.

Ho invece perduto, insieme ad altri scommettitori, centinaia e centinaia di milioni per scommesse perdute in seguito al mancato rispetto di precisi e retribuiti accordi da parte di giocatori. Preciso ancora che molti allibratori clandestini i quali a seguito delle recenti notizie giornalistiche hanno capito di avermi talora pagato vincite in ordine a risultati precostituiti, hanno preteso con gravi minacce la restituzione di circa 300.000.000 (da me ed altri scommettitori) trattenendo peraltro, ovviamente, le ben più ingenti somme perdute in seguito ai non rispettati accordi di cui sopra.

Sono ormai completamente rovinato eppure vivo ancora nel terrore di minacce e rappresaglie.
Nel confermarmi a completa disposizione della S. V. Ill.ma e riservandomi di depositare la documentazione in mìo possesso, precisare nomi di testimoni e tutte quelle circostanze che la S. V. medesima riterrà utili, porgo deferenti ossequi.

Roma, 1 marzo 1980

Italia 1982: I Grandi di Spagna


Ventidue leoni in gabbia si aggirano negli spazi dell'hotel Castillo di Sant Boi de Llobregat, peri­feria di Barcellona. Ventidue uomini toccati, fe­riti e inquieti. Dal fresco di Vigo alla canicola ca­talana hanno portato sulle spalle una messe di risentimenti e una novità assoluta per il calcio italiano: il silenzio stampa.Il mondiale spagnolo è giunto alla seconda fase. Le po­tenze sono ancora tutte in corsa, anche se nella maggior parte dei casi il loro cammino non è stato trionfale: la Spa­gna padrona di casa ha superato la Jugoslavia solo in virtù di una condotta arbitrale da censura; l'Argentina campione in carica ha accusato un passo falso contro il Belgio; Germa­nia Ovest e Austria hanno fatto fuori una splendida Algeria accordandosi spudoratamente nell'ultima partita. Solo In­ghilterra e Brasile hanno ottenuto il lasciapassare a punteg­gio pieno. Addirittura, lo squadrone sudamericano ha mes­so a segno dieci reti, subendone solo due.

Quanto all'Italia, si può definire grande solo per i fasti passati. Non sembra esserci più traccia della squadra che quattro anni prima, rinnegando il cinismo del calcio all'ita­liana, ha sfiorato la finale. Nel clan azzurro c'è aria pesante, alimentata dai responsi delle premondiali: sconfitta (0-2) con la Francia a Parigi; sconfitta (0-1) a Lipsia con la Ger­mania Est; pareggio incolore a Ginevra contro la Svizzera. Addirittura sconfortante il test sostenuto a tre giorni dal de­butto contro il Braga, serie B portoghese: 1 a 0, gol di Graziani e una manovra contratta e involuta.

Bearzot è il testardo capo di questi masnadieri ormai pri­vi di nerbo. E dire che la squadra è quella presentata in Ar­gentina nel '78, salvo alcuni rimpiazzi imposti dalla carta di identità e la dolorosa rinuncia a Bettega, infortunato. Una quasi unanime campagna di stampa, nell'imminenza del mondiale, ha cercato di suggerire al condottiero friulano la chiamata del "genio" interista Beccalossi, che a 26 anni ha raggiunto i vertici della sua arte calcistica.
Ma Bearzot non ha sentito nessuno, per Beccalossi nella sua idea di squadra non c'è posto. Alla partenza per la Spagna, a Fiumicino, il commissario tecnico si è anche dovuto difendere da un in­sulto urlato con rabbia da una ragazza: «Bastardo!». Lo ha fatto rifilandole un ceffone, a scopo educativo.



I leoni in gabbia, nel "retiro" di Barcellona, non hanno certo superato le tensioni della vigilia. Anzi, il cammino fat­to nella prima fase dei campionati, benché concluso con la qualificazione, li ha messi ancor più alla berlina. Pareggio, discreto, con la Polonia; pareggio, brutto e affannoso, con il Perù; pareggio, opaco e calcolato, con il Camerun. Risul­tato: secondo posto nel girone e passaggio alla seconda fase per differenza reti, ai danni del Camerun.

Le critiche sono cresciute dopo ogni prova e dall'Italia hanno raggiunto gli azzurri nell'umida dimora di Vigo. Cri­tiche al gioco, al difensivismo a oltranza, all'impreparazione fisica, all'ostinazione di Bearzot nel tenere in campo il palli­do, smagrito e inconcludente Rossi. Già, proprio il Pablito strepitoso di Argentina, rimasto impegolato nello scandalo scommesse e uscito dai due anni di squalifica proprio qual­che settimana prima dell'inizio del mondiale.
Per il pubblico che lo attendeva come il messia quei due anni non sono passati, ma per Rossi sì. Il ragazzo sorridente e disponibile di prima adesso si isola ed evita per quanto possibile i giornalisti. Si capisce che la squalifica, per fatti di cui si è sempre dichiarato innocente, lo ha segnato non so­lo nel fisico.



Al ritiro azzurro si è presentato cinque chili sottopeso e ancora non li ha recuperati tutti. Le difficoltà evi­denziate anche nelle giocate più semplici, la condizione atletica inquietante, l'evanescenza nello scontro fisico, gli hanno rapidamente alienato i favori del pubblico. Durante un allenamento, alla vigilia dell'incontro con il Camerun, un italiano gli ha gridato al megafono: «Rossi, sei comico!». Per lui ha reagito Graziani: «Se siete venuti solo per attac­carci potevate restare a casa». Anche quando tutti ne chie­dono la testa, Bearzot continua a ritenere Rossi troppo im­portante per non attenderne il risveglio.

Ma gli strali polemici non sono venuti solo dalla stampa. Dopo la partita col Perù hanno chiesto a Matarrese, presi­dente di Lega, se Catuzzi, allenatore del suo Bari, si sarebbe comportato come Bearzot; cioè, se avrebbe mandato in cam­po Causio, e non un attaccante, al posto di Rossi. La risposta: «Non offendiamo Catuzzi». E ancora: «Al posto del presiden­te federale Sordillo non sarei sceso negli spogliatoi, perché avrei dovuto prendere tutti a calci nel sedere». E dall'Italia è giunta anche la bordata del giovane tecnico Fascetti: «Mi ver­gogno di appartenere alla stessa categoria di Bearzot».

Fin qui, rilievi più o meno tecnici. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto la diatriba sul premio di qualificazione: si è parlato di 60-70 milioni a testa e su tali voci si sono levate proteste nell'opinione pubblica, un'interrogazione parla­mentare e un esposto alla Procura della Repubblica di Ro­ma. Poi è intervenuto Sordillo, precisando che ogni azzur­ro avrebbe ricevuto una ventina di milioni lordi. E Carraro, presidente del Coni, ha assicurato che per il pagamento si sarebbero utilizzate le percentuali sugli incassi. A questa tensione di fondo si è aggiunta poi una ventata di basso giornalismo, con volgari insinuazioni su Rossi e Cabrini compagni di camera.

Insomma, l'aria di Vigo si è rivelata umida in tutti i sensi. Così, al momento di lasciare la Galizia per Barcellona, la squadra, provata anche psicologicamente dalla passata paura dell'eliminazione, ha annunciato il silenzio stampa. Nessun giocatore, a termine indefinito, avrebbe più rilasciato dichiarazioni, salvo capitan Zoff.

Al sole di Barcellona, quindi, gli azzurri si leccano le ferite e meditano una vendetta difficilissima, considerati gli abbinamenti per la seconda fase. Con il secondo posto del turno eliminatorio, l'Italia s'è guadagnata infatti due ter­ribili compagni d'avventura: Argentina e Brasile. La prima arrivata di questo terzetto va in semifinale, le altre a casa.

Bearzot ha un unico credo: difendere i suoi, fino allo stremo. Rivelerà poi di aver visto nella fase eliminatoria, in particolare contro il Perù, la squadra letteralmente terroriz­zata dalla paura di perdere; ma intanto distribuisce ai gioca­tori elogi che, a fronte della realtà, paiono senz'altro esage­rati.

I giocatori, di conseguenza, fanno blocco in favore del loro tecnico, anche se, per la verità, qualche crepa affiora: il giovane Massaro, per esempio, è segnalato come uno dei più in forma, ma si dice sia stato "cancellato" da Bearzot do­po l'amichevole di Braga, quando il giocatore ha espresso critiche ai compagni. E Altobelli, che in allenamento segna a ripetizione, rimugina amaro sul suo ruolo di panchinaro. L'emergente Dossena, invece, che molti vedrebbero volen­tieri in squadra, si adatta di buon grado a fare il "turista".

II silenzio stampa non piace al presidente Sordillo, che prima del debutto nel secondo turno, contro l'Argentina, tenta di convincere la squadra a desistere. Zoff risponde picche.
Di fronte all'Italia di Vigo, l'Argentina sembra uno sco­glio titanico. Rispetto a quattro anni prima, i campioni del mondo hanno aggiunto al loro organico un po' invecchiato il miglior giocatore in circolazione, quel Maradona che gio­cherà davanti ai suoi prossimi tifosi, visto che ha da poco fir­mato un contratto principesco con il Barcellona. Maradona con la palla al piede fa prodigi che non si vedevano dai tem­pi di Pelè. Degli azzurri lo conosce molto bene Tardelli, che lo ha affrontato due volte: la prima con la Nazionale nel '79, a Roma; la seconda in un'Argentina-Resto del Mondo. In quest'ultima occasione Tardelli fu espulso per rudezze ai danni del giovanissimo e imprendibile avversario.



Bearzot fa strenua pretattica, non vuole dare alcun vantaggio al carismatico Menotti, tecnico avversario, con il quale i rapporti non sono al momento idilliaci. L'argenti­no, infatti, ha imbastito critiche abbastanza dure nei con­fronti della squadra azzurra, definita "squilibrata" e netta­mente inferiore a quella presentata in Argentina. Bearzot non digerisce e rimanda al mittente: «Anche la sua squadra, durante le amichevoli premondiali, poteva essere definita squilibrata. E poi cosa ne pensa della prestazione dei suoi contro il Belgio?».

Schermaglie a parte, il cittì azzurro non ha intenzione di toccare nulla rispetto agli uomini impiegati contro il Camerun: Zoff tra i pali; Collovati, Gentile e il libero Scirea a for­mare il pacchetto difensivo, con Cabrini fluidificante a sini­stra; a centrocampo, Oriali, Tardelli e Antognoni, con il supporto di Conti; Rossi punta centrale, Graziani in appog­gio.

Rimane un unico dubbio: chi marcherà Maradona? Bearzot è indeciso fra Tardelli e Gentile. Ma Maradona gio­ca in chiave esclusivamente offensiva, e Tardelli su di lui dovrebbe fare il difensore puro, privando così la squadra di una spinta importante. Così, negli spogliatoi, a pochi minu­ti dal fischio d'inizio, Bearzot prende da parte Gentile e gli fa un discorsetto di questo tipo: «Maradona lo prendi tu. E' un grandissimo, il tuo compito è fondamentale. Ma io ho fi­ducia in te. Va' in campo e annullalo». Per uno come "Gheddafi" basta e avanza: l'ultimo momento in cui Mara­dona può muoversi senza un'ombra azzurra appiccicata ad­dosso è quello del riscaldamento.





Il piccolo Sarrià, secondo stadio di Barcellona dopo il Nou Camp, è una fornace ribollente: le prime fasi si risolvo­no in una sequela di scontri durissimi. Gli azzurri mostrano i tacchetti, ma dall'altra parte, con gente come Passarella e Gallego, non ricevono sorrisi. Maradona prova ad esibirsi, si vede che il suo bagaglio è superiore. Ma l'ombra azzurra che gli è alle costole sembra avere cento mani e cento piedi: il "pibe de oro" è trattenuto, bloccato, "massaggiato". E quando, verso la metà del tempo, riesce ad andar via e pun­tare dritto alla porta, viene steso senza pietà dal classico e generalmente correttissimo Scirea.

Si va al riposo sullo 0 a 0. Neanche male, almeno non si sono riviste le mollezze e i timori di Vigo. E nella seconda parte, dopo una dozzina di minuti, parte dai piedi di Conti un contropiede che taglia in due i biancocelesti. L'ultimo tocco è di Antognoni per la veloce sovrapposizione di Tardelli che, spostato a sinistra, piazza un rasoterra nell'angolo lontano. E' una rasoiata al petto dell'Argentina. Un sogno? Neanche per idea, perché da quel momento l'Italia tiene botta di fronte agli attacchi avversari senza concedere più nulla.

Lo stesso Gentile non ricorre nemmeno più al fallo per fermare Maradona. Gli azzurri formano ora un mecca­nismo perfetto, in cui lo stesso Rossi dà cenni di ripresa. E proprio a Rossi, poco dopo, capita l'opportunità di filare da solo verso il portiere Fillol. Al momento della battuta, in preda alla fatica e a tutte le sue tensioni irrisolte, Paolo si rattrappisce scomposto e consente a Fillol la respinta. Il mondo potrebbe crollargli addosso, se quel pallone non fosse subito artigliato e giocato magicamente da Conti, che dopo aver nascosto la sfera allo stesso Fillol, la serve indie­tro a Cabrini. Sinistro secco e 2 a 0.

Ora si va in discesa. Esce esausto Rossi ed entra Altobelli, appena in tempo per prendersi una perfida gomitata in fac­cia da Passarella. Lo stesso Passarella calcia una punizione mentre Zoff sta ancora sistemando la barriera e porta l'Ar­gentina sul 2 a 1, fra le proteste italiane. In chiusura, folleg­gia ancora Bruno Conti, capace di uscire palla al piede da un nugolo di gambe che lo falciano come motoseghe.

Cosa è successo? Non è facile spiegarlo, sta di fatto che i giocatori hanno trasformato la sindrome da assedio da cui è nato il silenzio stampa in una straordinaria forza morale. Ecco cosa meditavano i leoni in gabbia, nella tesa vigilia. Bearzot si presenta in sala stampa senza sorridere. Anche per lui è una rivincita ed evidentemente le ultime polemi­che il cittì le ha ancora sullo stomaco. Pur nel successo, ten­de ancora a giustificare le precedenti magre: «Nelle prime partite - dice - c'è mancato il colpo del k.o.».

Fra gli azzurri, molti cominciano a pensare che sarà diffi­cile fermare la "nuova" Italia. Eppure, è alle viste l'incontro con i "mostri" brasiliani, predestinati al trionfo. Intanto, c'è modo di rilassarsi. Il giorno dopo la battaglia, Graziani, Ros­si e Collovati scendono presto in sala video per rivedersi l'incontro. Gli altri dormono fino a tardi e nel pomeriggio sciamano per le vie di Barcellona in tutta libertà. Chi vuole, può tornare anche alle soglie della mezzanotte.

La mattina del 2 luglio, a Casa Italia piomba il presi­dente del Consiglio Spadolini, diretto a Madrid. Non sono momenti facili per lui e per il suo governo. Ma soprattutto non sono momenti facili per l'Italia, che si scopre infestata dalla P2 e nelle more oscure dell'affare Calvi, trovato qual­che giorno prima impiccato a Londra. Di fronte a Spadoli­ni, Sordillo si lancia in un discorso aulico, con riferimenti addirittura alla fatale avventura di Leonida alle Termopili.

Nel pomeriggio, gli azzurri si recano di nuovo al Sarrià, ma questa volta in veste di spettatori interessati: c'è Argenti­na-Brasile, un grande classico del calcio mondiale. Il Brasile signoreggia contro un avversario ormai provato. Uno, due, tre gol, a cui gli argentini oppongono solo una segnatura in extremis. Maradona si fa prendere dall'ira, piazza i bulloni sul fianco di Batista e conclude il suo mondiale con un car­tellino rosso. A scusante della sua magra pone i colpi presi contro l'Italia. «Non è ancora maturo», sentenzia il grande Pelè, che ha invece eletto Bruno Conti a suo preferito.

Italia-Brasile è quindi lo scontro decisivo. A Casa Italia i rapporti fra stampa e squadra non sono certo tornati alle­gri: fra Gentile e Lino Cascioli del Messaggero si viene quasi alle mani. Ai sudamericani basta il pareggio, per la migliore differenza reti. Bruttissimo affare: bisognerà scoprirsi. Nelle certezze del Brasile affiora comunque qualche preoccupa­zione. Il selezionatore Santana teme il contropiede azzurro e si dice ammirato dalle giocate di Conti e Antognoni. Le due squadre sono al completo, l'unico dubbio è la presenza di Zico, maestro fra i maestri, vittima di un'entrata assassina di Passarella. L'opinione comune è che fra le due formazio­ni ci sia un forte divario. Eppure, nel cammino trionfale del Brasile è possibile intravedere piccole falle, soprattutto nella scarsa affidabilità del portiere Valdir Peres e nell'assenza di un uomo d'area più prolifico di Serginho. Inoltre, gli italia­ni hanno riposato cinque giorni, i loro avversari due.

Zico passa la vigilia con la borsa del ghiaccio sul polpac­cio sinistro, ma alla fine decide di giocare. Bearzot ha previ­sto di affidarlo a Oriali, dirottando Gentile sull'ala Eder, mancino temibilissimo. Invece, proprio dieci minuti prima dell'inizio, Bearzot chiama Oriali e Gentile e rimescola le carte: «Ti ho visto molto bene su Maradona - dice a Gentile - perciò prendi anche Zico. Oriali va su Eder».





Sul campo, gli azzurri fanno la parte delle vittime predestinate solo per 5 minuti. Poi, Conti opera un lungo dribbling sull'out destro, cambia gioco per Cabrini, che alza la testa ed effettua il traversone arcuato. E' un attimo: die­tro ai difensori si materializza Rossi, che di testa va a coglie­re l'angolo lontano. Incredibile: gol al Brasile e gol di Rossi! Il Brasile è un gigante colpito da un pallino di gomma: qualche secondo dopo ha già ripreso a infiorettare gioco con somma noncuranza dell'avversario. E fortuna che Serginho ciabatta malamente a tu per tu con Zoff.

Poco dopo, però, Zico ruba il tempo a Gentile e chiama all'incursione Socrates: il "Dottore" accenna il cross e va invece beffarda­mente a trafiggere Zoff sul primo palo. L'illusione è durata poco. I brasiliani fanno girare palla con sicurezza, orchestrati dal centrocampo delle meraviglie: Falcao, Cerezo, So­crates, con gli apporti di Junior e Eder. Zico è una volpe: le sue giocate di prima mandano spesso a vuoto Gentile, che in una occasione gli si aggrappa alla maglia e gliela strappa. Ma la troppa sicurezza a volte tradisce: su un passaggio oriz­zontale di Leandro, Cerezo e Junior la prendono un po' al­la leggera; fra i due sbuca Rossi, davanti al quale si spalanca il corridoio verso la porta avversaria. Breve corsa verso Valdir Peres, botta di destro e gol. Eccolo di nuovo il Pablito conosciuto in Argentina, il predatore che riesce a farti rim­piangere per la vita un attimo di disattenzione. Intanto, Collovati è uscito per infortunio e Bearzot ha mandato in cam­po il non ancora diciannovenne Bergomi, che i compagni, per l'aria seria e i baffoni, chiamano "zio".



Tutto sembra filare liscio, nel secondo tempo, fino a quando il romanista Falcao trova una buco centrale al limite dell'aria e batte Zoff. La sua gioia sfrenata è la nostra di­sperazione, anche perché mancano solo 17 minuti. Il Brasi­le a questo punto vuole il trionfo, continua ad attaccare an­che se il pareggio gli va benone. L'Italia guadagna un cor­ner, la difesa respinge dalle parti di Tardelli, che tenta la battuta. Non sarebbe niente di straordinario, se in mezzo al­la mischia non sbucasse un piede di Pablito a mettere den­tro per la terza volta. Per Rossi un tris memorabile, ma per l'Italia non è finita.

Gli attacchi brasiliani adesso sono dispe­rati e affannosi. Zoff ha urlato come un ossesso durante tut­ta la partita e adesso sembra non aver più neanche un filo di fiato. Ma su un colpo di testa di Cerezo, si lancia sulla sinistra e blocca la palla proprio sulla linea, togliendo dieci anni di vita a milioni di italiani. Va via l'Italia in contropiede, Antognoni tira e fa gol, ma l'arbitro annulla per un fuorigio­co che non esiste. E bisogna soffrire qualche altro minuto, prima del triplice fischio.

I tifosi brasiliani, che nei giorni precedenti ave-vano riempito di musica e balli le ramblas, rimangono impietriti. Piangono, come piange Falcao in campo. La festa italiana comincia invece all'unisono a Barcellona come nelle nostre piazze. Ricompaiono bandiere tricolori tirate fuori da chissà quale anfratto.


Rossi è un eroe. Perfino quelli che lo trattavano da bido­ne vanno a manifestargli la loro ammirazione. In novanta minuti ha rimesso la sua carriera su binari lasciati due anni prima. All'hotel Castillo adesso regna l'euforia. Gli azzurri ormai sono straconvinti che nessun ostacolo si potrà frap­porre alla conquista del mondiale.

In semifinale ci tocca la Polonia. Grave rischio: dopo le imprese con Argentina e Brasile, i polacchi, già incontrati nella prima partita, possono essere considerati solo una for­malità da sbrigare in tutta fretta. Tanto più che il loro uomo migliore, il prossimo juventino Boniek, è squalificato. Qual­che problema, in verità, ce l'ha anche Bearzot: Gentile non ci sarà, anche lui per squalifica; Vierchowod, suo eventuale sostituto, è infortunato; Tardelli e Oriali sono malconci, ma in grado di farcela. Al posto di Gentile gioca Bergomi.



Barcellona è un forno a 40 gradi. Titola la "Van­guardia": «La temperatura più alta del secolo». Ribadisce il "Noticiero": «Un cinturone di fuoco attorno a Barcellona». Sale anche la temperatura degli italiani, il cui numero nel capoluogo catalano è aumentato notevolmente. Contro la Polonia si gioca nello sterminato Nou Camp. Stavolta è l'Italia a recitare la parte della favorita.

I polacchi si difendo­no non senza rudezze, ma per il gol del vantaggio bisogna aspettare solo una ventina di minuti. Calcio di punizione dalla destra di Antognoni e palla in rete. Ci vorranno due o tre replay per accorgersi che su quella traiettoria è spuntato il piede rapinoso di Rossi per una deviazione fatale. Poco dopo, lo stesso Antognoni, ancora toccato dal gol annulla­togli contro il Brasile, va a tentare un'improbabile conclu­sione, benché in ritardo sull'avversario. Risultato: squarcio sul piede e sette punti di sutura. Al suo posto, Marini.

Sorte analoga tocca nel secondo tempo a Graziani, sostituito da Altobelli per un infortunio alla spalla. Ma l'Italia va spedita verso la finale, così come va spedito Conti sulla fascia sini­stra, prima di crossare un morbido e comodo pallone, sul quale Rossi si inginocchia firmando il 2 a 0 definitivo.


Cinque gol in due partite: nei giorni bui di Vigo, Rossi aveva cercato di profetizzare: «Giudicatemi alla fine. Credo che se segnassi un gol mi sbloccherei». Ma quanti gli aveva­no prestato fede?

Uscendo dal campo, Zoff si avvicina a Bearzot, che si in­trattiene con una televisione, e lo bacia. In quel gesto fra friulani schivi c'è la compattezza e la coesione di tutto l'or­ganico. Al di là delle scelte tecniche, sembra questo il tratto distintivo di questa nazionale.


Bene, è finale. Una finale di straordinario valore simbolico, visto che metterà di fronte due grandi della sto­ria del calcio: Italia e Germania Ovest. Entrambe le nazio­nali aspirano a raggiungere il Brasile con i suoi tre titoli mondiali, I tedeschi hanno agganciato la finale ai rigori contro la Francia, dopo essere stati in svantaggio di due gol ai tempi supplementari. Ce n'è abbastanza per alimentare la loro fama di irriducibili. Ma l'Italia ormai ci crede se ci fosse uno strumento per misurare la carica agonistica, con gli azzurri scoppierebbe.

Ecco Madrid, finalmente: la comitiva italiana alloggia all'Hotel Almeda, già prenotato dai brasiliani, Ma guarda un po' come va a ripetersi la storia: nel '38, prima della se­mifinale Italia-Brasile, Pozzo andò dai brasiliani che in rista della finale avevano prenotato l'unico aereo per Parigi, a chiedere di cedere i posti nel caso di vittoria italiana, «Spiacenti - risposero - ma non avete alcuna possibilità di batter­ci». L'Italia vinse 2 a 1 e andò a Parigi in treno.
Il baluardo del silenzio stampa non crolla neanche a un giorno dalla finale: l'unica deroga viene concessa a Bergomi, che così può spiegare le sue sensazioni di diciottenne nella mischia del mondiale.

Da Roma, arriva anche Pertini. Il presidente si era sempre rifiutato di raggiungere la Spagna, temendo, in caso di eventi negativi, di fare la parte del menagramo. Ha ce­duto solo all'invito espresso del re Juan Carlos. Non ha questi problemi invece la folla variopinta degli italiani riversatisi da Barcellona nella capitale.

Bearzot e il suo collega Derwall hanno un grande pro­blema ciascuno: Antognoni da una parte, Rummenigge dall'altra. Il regista azzurro soffre ancora per l'infortunio su­bito in semifinale; l'attaccante tedesco ha problemi musco­lari, ma vuole esserci lo stesso, tanto più che contro la Fran­cia il suo ingresso è stato provvidenziale.

Le decisioni dei due cittì sono opposte: fuori Antognoni, dentro Rummenigge. Per sostituire il suo uomo, Bearzot ri­mescola parzialmente le carte: ignora Dossena, il sostituto naturale, e Marini, altro centrocampista, facendo invece avanzare Cabrini. In difesa inserisce di nuovo Bergomi.
Non solo: al giovanissimo difensore Bearzot assegna il con­trollo di Rummenigge, l'uomo di maggior spicco, che con cinque reti contende a Rossi il titolo di capocannoniere.



Alla vigilia i tedeschi sono sicuri di farcela. Ma il giorno della partita, uscendo dall'albergo, ricevono subito un auspicio infausto: il percorso che porta allo stadio è qua­si interamente invaso da striscioni e bandiere italiane. Cer­to, non basta questo a piegare una squadra zeppa di vetera­ni.

A parte capitan Breitner, già punto di forza della Germania Ovest campione nel '74, c'è gente come Stielike, "catti­vo" per eccellenza, o come il portiere Schumacher, che in semifinale ha deturpato l'arco dentario a Battiston senza battere ciglio.


La preponderanza del tifo italiano è riscontrabile anche all'interno del monumentale Bernabeu. Ma una partita si gioca sul campo, e sul campo le cose per l'Italia stentano a mettersi bene, tanto più che dopo sette minuti Graziani, dolorante, deve lasciare il campo. Lo sostituisce Altobelli, così com'era accaduto contro la Polonia. Il duello Bergomi-Rummenigge pende subito dalla parte dell'italiano, anche perché Kalle mostra tutti i suoi acciac­chi. Intanto, nei pressi dei due, aleggia un ritornello costante: «Calmo, zio, calmo». Sono Zoff e Scirea che incoraggia­no il giovane compagno di reparto.

Si lotta su ogni pallone, senza troppo costrutto. Do­po poco più di venti minuti, la mole del decatleta Briegel crolla sul peso leggero Conti: rigore. Va Cabrini. Davanti a lui un glaciale Schumacher. Breve rincorsa, un sinistro scomposto e arrotato all'eccesso, che termina a lato. Cabri­ni rimane in trance, mentre il primo tempo va a finire sen­za altri scossoni.

Negli spogliatoi i compagni scuotono Cabrini e si prepa­rano alla stretta finale senza più pensare all'occasione del rigore. Tutt'altra aria alberga fra gli avversari, un po' sor­presi dalla solidità morale degli azzurri: «Di solito nell'in­tervallo discutevamo - ricorderà poi Rummenigge - ognu­no dava consigli, suggerimenti. Quella sera invece non fia­tava nessuno. Un silenzio quasi irreale, pareva di essere sot­to di tre o quattro gol, invece eravamo sullo 0-0, potevamo ancora giocarci il titolo. Niente. Solo le parole di Derwall, ma nessuno di noi aprì bocca».

Le paure si materializzano dopo undici minuti del se­condo tempo. Gentile mette in area un pallone, Cabrini va per colpirlo, ma si sente travolgere da una furia: è Rossi, che con un mezzo tuffo incorna e mette dentro: 1-0, anco­ra per merito di Pablito, fin lì annullato da Karl Heinz For­ster.

Ora la Germania attacca e scopre il fianco. Passa solo una decina di minuti, prima che Scirea, autore dell'ennesi­ma magnifica prova, scenda palla al piede. Il libero azzur­ro, nei pressi dell'area avversaria, prima scambia con Bergomi. poi pesca al limite Tardelli. Questi ha un controllo impreciso, poi, prima che la palla gli sfugga, l'arpiona con un sinistro micidiale, che batte sul palo e lascia di sasso Schumacher. L'incontenibile, commovente incontrollata esplosione di gioia del giocatore diventerà il simbolo del mondiale.




Il resto è apoteosi azzurra: Conti galoppa sulla destra e taglia basso per Altobelli. Controllo a eludere il portiere e palla per la terza volta nel sacco. Esulta anche Pertini, che salta in piedi e fa di no col dito: «Non ci prendono più». Il gol della bandiera di Breitner arriva solo a sette mi­nuti dalla fine, ma sono sette minuti di sofferenza per il pubblico italiano, che teme una delle rimonte impossibili di cui è piena la storia della Germania. Il triplice fischio del brasiliano Coelho è quindi una liberazione.

Campioni del mondo! Zoff solleva la Coppa in un gesto che dodici anni prima, sull'erba dello stadio Azteca, ha vi­sto fare a Carlos Alberto, capitano del magico Brasile di Pelè. Quel giorno era in panchina. I suoi compagni di allo­ra sono da anni allenatori, dirigenti o chissà che. Dino in­vece, a quarantanni anni vive la massima soddisfazione della carriera.


I leoni in gabbia di Vigo sono ora sul tetto del calcio. Hanno cominciato a vincere quasi per rabbiosa ripicca, poi hanno abbattuto ogni ostacolo, a dispetto di un cammino difficile. Tornano in Italia, a Roma, accolti da una folla in festa. Con loro viaggia anche Pertini, che durante il volo, in coppia con Zoff, dà vita a una memorabile sfida a scopo­ne contro Bearzot e Causio.

Con la vittoria spagnola il calcio italiano cancella dopo due anni la depressione indotta dallo scandalo scommesse. Le vicende del pallone attireranno come mai in passato il pubblico femminile, allargheranno il loro già robusto spa­zio sui giornali e invaderanno gli schermi televisivi, fino a toccare livelli esagerati.

La banda Bearzot perderà lentamente i pezzi fino al fal­limento dei mondiali messicani del 1986. Il suo ciclo, ini­ziato con la grande avventura argentina del '78, è in effetti terminato proprio nella magica notte del Bernabeu...