domenica 29 maggio 2011

STORIA DEL CALCIO BY ALESSANDRO LUGLI PRIMA PARTE



Volendo fissare una data ufficiale, si può pensare al 1891, anno di fondazione dell'Internazionale Football Club. Che, si badi bene, non è da confondere con Internazionale di Milano, da tutti conosciuta e da molti amata con il nome di Inter, che verrà creata nel 1908 da una costola del Milan. L'Internazionale in discorso è invece un club torinese in cui, con encomiabile spirito democratico, militano alcuni aristocratici guidati dal duca degli Abruzzi e dal marchese Ferrero di Ventimiglia e i dipendenti di una società commerciale che tratta articoli di ottica.
Il titolare è tale Edoardo Bosio, torinese di origine svizzera, gran viaggiatore. Con ogni probabilità - ché le notizie a riguardo sono incerte, e si procede per induzioni - i frequenti viaggi d'affari lo portano spesso in Inghilterra, dove assiste agli incontri tra i club e s'innamora di questo nuovo sport. Che non esita a portare in Italia, dove però si afferma anche grazie agli stessi inglesi. A Genova, infatti, uno drappello di sudditi di Sua Maestà fonda, nel 1893, il Genoa Cricket and Athletic Club, il più antico tra i club ancora in attività.
Di stanza al porto, i fondatori si dilettano con l'attività ludica che tanto ricorda loro la madrepatria; fino a quando capiscono che anche in Italia quello sport può diventare una cosa seria come lo è oltremanica. Nel 1897, quindi, scrivono nel loro statuto la regola che ammette l'ingresso di soci italiani, così rafforzando una compagine che già mostrava di giocare un buon calcio. E nel 1898, esattamente l'8 maggio, vincono il primo campionato italiano. Nulla a che vedere con lo spossante - non solo per i giocatori, ma anche per chi lo segue - torneo dei giorni nostri: il primo scudetto, infatti, viene cucito sulle maglie del Genoa al termine di una sola giornata di partite che coinvolgono quattro squadre.
Oltre ai campioni, vi partecipano la già citata Internazionale Torino, il Football Club Torinese e la Ginnastica Torino. I match si giocano, ça va sans dire, all'ombra della Mole, precisamente nella Piazza d'Armi e con quella vittoria il Genoa costituisce la prima, gloriosa eccezione alla regola del fattore campo (non è da tutti giocare contro tre squadre cittadine e imporsi sempre).
Per quanto rudimentale e pionieristico, quel campionato segna comunque un primo tentativo di unificazione sportiva della penisola.
Fino ad allora, infatti, ogni team giocava tornei cittadini (oltre Genova e Torino, se ne disputavano anche a Milano). Dal 1898 tuttavia, grazie anche alla spinta propagandistica della Federazione Italiana del Football - antenata dell'attuale Federazione Italiana Gioco Calcio, meglio conosciuta come Figc - il campionato prende piede. Nascono nuove società che faranno la storia del calcio italiano: la Juventus (1897), il Milan (1899), la Lazio (1900), e tutte partecipano ad un torneo che cresce sempre più e che vede dominare su tutte le squadre il Genoa, vincitore di sei delle prime sette edizioni (l'unico intermezzo è del Milan nel 1901) .
Il football, dunque, è realtà consolidata anche in Italia. Aumentano le giornate di campionato, e nell'autunno del 1909 si inaugura il primo torneo a cavallo di due stagioni (lo vincerà nel maggio 1910 l'Internazionale, da intendersi però come Inter). Fino alla Grande Guerra, ad ogni modo, il calcio conserva, dietro un'organizzazione che si fa sempre più capillare, caratteri quasi dilettanteschi. Non mancano, tuttavia, nomi di una certa importanza. Tra tutti Virgilio Fossati, capitano dell'Inter e della Nazionale (della quale parleremo oltre), né mancano personaggi da romanzo picaresco, qual è stato Franco Bontadini.
Anch'egli giocatore dell'Inter (ala destra). Il vero personaggio del calcio nostrano, tuttavia, arriva con l'avvento del fascismo. Si chiama Leandro Arpinati, podestà di Bologna, presidente della Federazione calcistica dal 1926 al 1932. Uomo di temperamento sanguigno, è squadrista fedele al duce pur riuscendo a mantenere una certa indipendenza e una salutare distanza dai gerarchetti che ne contestano le iniziative. In particolare, quella di aver voluto accanto a sé come segretario tale Giuseppe Zanetti, che l'ambiente vicino a Mussolini reputava inidoneo in quanto non iscritto al Pnf (Partito Nazionale Fascista) ma che Arpinati riesce comunque a imporre sostenendo di aver bisogno, come collaboratore, di un galantuomo competente e non di un fascista.
Sotto il "duomvirato" Arpinati-Zanetti il calcio italiano conosce due innovazioni di notevole portata. La prima è l'introduzione del girone unico, denominato "all'italiana" (definizione tuttora in uso in campo internazionale). Niente più spareggi né finali, ma partite organizzate secondo un calendario che coinvolge diciotto squadre di tutta la penisola e premia quella che alla fine totalizza più punti. La prima edizione si tiene nel 1929-30, e la vince l'Inter (che nel frattempo, in ossequio al nazionalismo del regime, fa precedere il proprio nome da un altro, Ambrosiana).
Il girone unico esprime compiutamente l'ideologia accentratrice del regime: "era lo sbocco logico - ha scritto Gian Paolo Ormezzano, giornalista e storico del calcio - di una ramificazione degli interessi per il calcio in tutt'Italia e della necessità di ricondurre questa ramificazione a una manifestazione centrale, disputata senza troppe cineserie di formula". La seconda innovazione concerne gli "oriundi", i figli di italiani emigrati in Sud America - dove, grazie ai fenomeni migratori, il calcio attecchisce suscitando le febbrili passioni tipiche dei latinoamericani - che si fanno strada nelle squadre argentine e uruguayane.
Il regime non vede di buon occhio l'interesse delle società italiane mostrano per questi stranieri, che subito le autorità politiche si affrettano a ribattezzare "rimpatriati". La loro classe, il loro modo di giocare è tuttavia grandioso, misto di tecnica e di quella fantasia che è elemento genetico di tutti i calciatori che provengono dalle sponde sudamericane. Le società scatenano quindi una caccia allo straniero (in senso buono, ovviamente) non dissimile da quella, frenetica, che contagia i presidenti delle società di oggi. Ma il regime impone dei limiti: non più di due oriundi per squadra. Nella difesa dei valori nazionalistici Arpinati è il più ferreo, tanto che si oppone con veemenza all'ingresso di stranieri in Nazionale.
Le massime autorità, però, fiutano vento di successi, molto più facili da raggiungere impiegando i talenti sudamericani, e ne ammettono l'impiego tra gli "azzurri" malgrado le proteste delle Federazioni argentine e uruguayane, che si vedono saccheggiare le riserve di campioni.
Il campionato del mondo di Francia è l'ultimo atto, prima della guerra, dello spettacolo calcistico che impegna come attori le nazionali.
Il fragore delle bombe e l'impiego di giovani al fronte non impedisce, tuttavia, lo svolgersi dei campionati nazionali. E per fortuna, diciamo col senno di poi, altrimenti in Italia non si sarebbe ammirata una squadra che ha scritto un capitolo esaltante e drammatico della storia del Paese: il "Grande Torino". Dal 1943 al '49 - con il "salto" dell'anno '44, troppo bellico da consentire tornei calcistici nazionali - i "granata" (dal colore delle maglie) vincono sempre il titolo italiano. Un undici spumeggiante, in cui primeggiano i nomi di Valentino Mazzola (padre del Sandro noto ai contemporanei), Loik, Gabetto, Ossola, Castigliani, Menti, il portiere Bacigalupo (per poco tempo, nel '42, ai citati campioni si unisce anche il futuro attore Raf Vallone).
Un vero "assopigliatutto", guidato dal factotum Ferruccio Novo che di quella squadra era contemporaneamente il presidente, l'allenatore, il direttore sportivo e, non ultimo, il padre putativo di ogni giocatore. Al punto da convincere le autorità militari, alla ricerca di giovani forze da mandare in guerra, dell'importanza di ogni suo uomo per il quotidiano lavoro in catena di montaggio alla Fiat. Senza di loro, senza quella dozzina di uomini che di bulloni sapevano ben poco ma inventavano calcio ogni volta che scendevano in campo, l'economia del Paese si sarebbe arrestata. L'esercito gli crede, e il mito del Grande Torino diventa realtà.
Come spesso accadde in periodi storici estremamente difficili, la squadra piemontese diventa lo strumento che milioni di italiani, in ogni regione del Paese, utilizzano per evadere dalla realtà stessa o per trovare in essa un appiglio cui agganciare il proprio riscatto. Cosa fosse l'Italia alla fine della Seconda guerra, è inutile ripeterlo. E' doveroso ripetere, invece, che il gioco spettacolare dei granata e l'autorità con cui tengono i campi di gioco di tutta Europa riempiono di orgoglio un'intera Nazione, addolcendole un poco l'amara realtà quotidiana.
La favola del Torino s'interrompe bruscamente il 4 maggio del 1949, quando l'aereo su cui viaggia la squadra, di ritorno da una trasferta a Lisbona per una partita con il Benefica, si schianta contro la basilica di Superga, nei pressi del capoluogo piemontese. Muoiono tutti: giocatori, dirigenti, accompagnatori (tra cui il giornalista Renato Tosatti, padre del Giorgio che oggi scrive per il Corriere della Sera). Lo strazio, sulla collina della basilica cosparsa dei rottami dell'apparecchio, è silenzioso e devastante.
Quando a cercare di riconoscere qualcuno dei defunti arriva Vittorio Pozzo, ancora commissario tecnico di una Nazionale che annovera dieci granata su undici uomini, c'è chi si sente male. L'Italia intera cade in lutto, e al funerale, tra le migliaia di torinesi venuti a salutare l'ultima volta i loro campioni, fa capolino qualche maglia bianconera. Quella dei rivali juventini, orfani dei loro più strenui avversari.
Volendo ipotizzare una filosofia del calcio, il mondiale del '50 fa da spartiacque. E' quello il momento, infatti, in cui questo sport comincia a perdere la sua innocenza e comincia a essere sempre meno gioco e sempre più fenomeno sociale, di costume e business. E' un fenomeno irreversibile, che cresce col tempo favorito da una serie di elementi tra i quali, importantissimo, l'avvento della televisione, che comincia a trasmettere le prime partite nel 1954 in occasione dei mondiali che si giocano in Svizzera. E che contribuisce a creare il mito delle prime grandi icone di questo sport: lo spagnolo Alfredo Di Stefano e l'ungherese Ferenc Puskas (che insieme fanno del Real Madrid, tra il '56 e il '60, la squadra capace di vincere cinque Coppe dei campioni consecutive), ma soprattutto il brasiliano Pelè, ancora oggi da molti considerato il più forte di calciatori di tutti i tempi, autore nella sua carriera di più di mille gol.
Il football, quindi, si sgancia sempre più dalla storia politica e militare dell'uomo per costruire una propria storia. Dal'50, insomma, comincia una nuova era per il calcio mondiale, fatta di uomini che ne alzeranno il livello del gioco fino a fargli toccare vette inarrivabili per tattica e classe dei suoi attori; fatta, appunto, di giocatori che si trasformano in attori professionisti di un circo mediatico sempre più attento alla vicende delle società calcistiche. Un periodo d'oro, in cui la commistione tra capacità atletiche e parentesi di mondanità darà vita a un cocktail equilibrato e gustoso.
Gli anni Cinquanta, cambiano il volto del sistema calcio. L'avvento della televisione e la nascita di squadre-mito (l'Ungheria di Puskas, il Real Madrid dello stesso magiaro e di Alfredo Di Stefano) sono i due elementi che più di tutti contribuiscono a fare dello sport più popolare al mondo un vero e proprio spettacolo. La trasfigurazione si completa a metà degli anni Sessanta grazie ad una squadra italiana: l'Inter. Dal 1954 ne è presidente un petroliere milanese, Angelo Moratti.
Dopo sei anni opachi quanto a risultati, il massimo dirigente chiama ad allenare i nerazzurri Helenio Herrera, argentino di origini spagnole che alla guida del Barcellona ha riscosso buoni risultati. L'ingaggio - 100mila dollari annui più i premi partita, inclusi quelli delle squadre giovanili dell'Inter - rende la misura del valore dell'uomo, che si autoproclama "mago" e stupisce i calciofili per la scarsa importanza che ripone negli schemi di gioco.
Il giornalista Gian Paolo Ormezzano, in un suo libro, ha scritto che Herrera "preferì intitolare tutto a se stesso, ai propri metodi spinti di allenamento, alla carica che in qualche maniera, dialettica o chimica, riusciva a impartire alla squadra. Ma la vera rivoluzione (…) consistette soprattutto nella costruzione totale della figura del tecnico, il quale divenne autenticamente mago, in possesso di poteri altissimi sul corpo e anche sull'anima dei suoi adepti, cioè dei suoi giocatori". Poteri che esercita con una concezione maniacale del calcio, che arriva a totalizzare la vita di chi lavora ai suoi ordini. Ai difensori, per esempio, pochi giorni prima di ogni partita consegna una fotografia dell'attaccante che devono marcare, intimando loro di portarsela anche in bagno. La sua, ad ogni modo, è un mania dai risvolti positivi, che non coinvolge l'impegno mentale dei giocatori anche nell'aspetto tattico.
In altre parole, Herrera non è un fanatico degli schemi. Anzi: degli undici che vanno in campo, ben quattro giocano soprattutto sulla fantasia: lo spagnolo Suarez, Mazzola, Corso, e il brasiliano Jair. Tra questi, il primo è ricordato per la capacità di lanciare il pallone per oltre quaranta metri con millimetrica precisione; e Corso per aver inventato il tiro "a foglia morta", che prima faceva impennare il pallone e poi, d'improvviso, lo lasciava cadere in rete, alle spalle del portiere. Con loro (e con altri campioni quali Facchetti, Burgnich, Picchi, il portiere Sarti) l'Inter di Herrera passerà alla storia.
Non tanto per le vittorie nel campionato italiano (nel 1963, '65 e '66), quanto per quelle in campo internazionale.
Nel 1964, allo stadio del Prater di Vienna, i nerazzurri conquistano la Coppa dei Campioni battendo in finale il fortissimo Real Madrid, bissando il successo italiano ottenuto l'anno prima dal Milan. Nel 1965 raddoppiano, nella finale di Milano vinta 1 a 0 contro il Benefica. Non contenti del primato in Europa, i ragazzi di Herrera si impongono anche a livello mondiale, vincendo due coppe Intercontinentali consecutive ('65 e '66) battendo in entrambe le occasioni gli argentini dell'Independiente. In questo modo, l'Inter non solo scrive pagine memorabili nella storia calcistica mondiale, bensì imprime il suo marchio nel costume del Paese, contribuendo ad alzare il volume di quel "boom" che ne scuote l'economia e il modo di vivere.
Il calcio, intanto, torna a parlare, come negli anni '30, il linguaggio della politica; e anche il linguaggio della ribellione sociale. Questo secondo aspetto, differentemente dal primo, va intensificandosi durante gli anni '80 grazie ad un diffuso fenomeno di esasperazione del tifo da stadio. Se fino ad allora nei posti situati in curva (il settore più economico) si andava per guardare la partita, dagli inizi degli Ottanta si va per sfogare tensioni sociali. Le tifoserie si trasformano in veri e propri club, spesso frequentati da un sottoproletariato urbano che vede nei novanta minuti della domenica il modo per buttar fuori dal proprio corpo la rabbia covata in una settimana di grigia insoddisfazione. E, come di solito vanno questo cose, l'unione fa la forza.
In molte curve si distinguono gruppi di tifosi particolarmente votati alla violenza, che si gemellano con omologhi di diverse tifoserie e dichiarano una vera e propria guerra a squadre che la storia del calcio - magari per la frequenza degli incontri, o per il fatto di aver sede nella medesima città - ha voluto rivali sportive. Il fenomeno della violenza in uno stadio ha il suo picco più drammatico in una partita giocata allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio 1985. E' in palio la Coppa dei Campioni, e in quella finale se la contendono gli inglesi del Liverpool e gli italiani della Juventus. La scellerata organizzazione belga mette a stretto contatto le due tifoserie nella curva Z, ma soprattutto lascia che gli "hooligans" inglesi entrino nello stadio con un impressionante carico di birra, che non esistano a terminare ben prima che cominci la partita.
Sotto gli influssi dell'alcool, alcuni di loro cominciano una carica al settore adiacente, dove risiedono gli italiani, tra i quali molti padri di famiglia con figli a seguito. Per evitare il bombardamento di cocci di bottiglia e spranghe di ferro, la folla si ammassa contro i muretti di protezione. C'è chi, in quell'assembramento pauroso, rimane soffocato; c'è chi fa un volo di venti metri verso il basso, il muretto di protezione avendo ceduto sotto il peso della folla; c'è chi, nel tentativo di sfuggire, scavalca un cancello di protezione ma perde l'equilibrio e viene trafitto dagli spuntoni. Tutto ciò accade sotto gli occhi dell'inerme polizia belga e sotto quelli delle telecamere, che mandano in eurovisione la carneficina. Che conta, alla fine, 39 morti, di cui 36 italiani. E' la notte più allucinante della storia del calcio. Altri tifosi juventini, seduti nel settore opposto a quello della strage, capiscono cosa sta accadendo e, per entrare in campo, tentano di divellere la rete di protezione.
I giocatori sono chiusi negli spogliatoi, raggiunti da sporadiche notizie. La voglia di giocare non c'è più, ma la partita viene comunque disputata per evitare ulteriori disordini (quali altri?, vien da chiedersi dopo quanto è accaduto).
Vince la Juventus, con un gol segnato da Michel Platini grazie a un rigore inesistente per un fallo subito dal bianconero Boniek ben al di fuori dell'area di rigore. In una finale ordinaria, quella decisione avrebbe scatenato continue proteste dei giocatori penalizzati, ma in quel momento nessun inglese ha il coraggio di protestare. La notte dell'Heysel non è certo il primo episodio di violenza calcistica, che ha conosciuto ben altri bilanci (per esempio, novantun morti durante una partita a Sheffield, in Inghilterra, nel maggio dell'89). I primi scontri tra facinorosi, in Italia, si registrano addirittura nel luglio del 1925 a Torino, con una sparatoria tra tifosi dei granata e del Genoa che fortunatamente non ferisce né uccide alcuno. La finale tra Juventus e Liverpool, però, complice la ripresa televisiva, rappresenta l'icona della violenza da stadio, alla quale si torna con la memoria ogni volta che gli spalti offrono lo "spettacolo" di tifosi che manifestano nel modo sbagliato il proprio entusiasmo.
Quello della violenza, ad ogni modo, è uno dei molti aspetti di un'esasperazione che dilaga in tutto l'ambiente, e che dalla metà degli anni Novanta ha conosciuto un'impennata grazie alle nuove regole sulla circolazione dei giocatori imposte da una sentenza emanata nel '95 dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Una decisione storica, che sancisce la libera circolazione dei calciatori sul territorio europeo - nel rispetto del principio della libera circolazione dei lavoratori - e che consente quindi a ogni squadra di far giocare un calciatore comunitario in ogni momento del campionato. Risultato: squadre infarcite di campioni stranieri (in omaggio ad una regola scellerata secondo la quale chi ha un cognome straniero è per forza un campione) e calo pauroso del tasso di affetto verso i colori della maglia, elemento imprescindibile nella filosofia del calcio.
Il successo organizzativo della manifestazione ITALIA 90 non è purtroppo pari a quello tecnico: delle "notti magiche" dell'Olimpico, alla squadra di Azeglio Vicini rimarrà soltanto un terzo posto che sa di beffa, senza sconfitte, ma "bruciata" alla roulette dei rigori contro l'Argentina di Maradona. La Federazione inverte la tradizione degli allenatori di scuola federale e rilancia se stessa e la Nazionale con l'ingaggio di Arrigo Sacchi, reduce dai trionfi internazionali alla guida del Milan e "profeta" di un calcio diverso.



Diritti televisivi, riforma delle competizioni internazionali per clubs, legge Bosman e nuovo regime per gli stranieri, sono soltanto alcuni dei nuovi scenari con i quali il calcio italiano si sta confrontando, in vista di un nuovo Statuto e di regole nuove che garantiscano all'intero sistema un futuro moderno, al passo con i tempi.



Dopo un cammino esaltante, cinque vittorie ed un solo pareggio contro gli Usa, a Berlino gli Azzurri approdano alla finale dove battono la Francia 6-4 al termine di una lunga maratona, conclusasi ai calci di rigore dopo che i tempi regolamentari si erano chiusi sull'1-1, in virtù delle reti siglate da Zidane su penalty al 7' e da Materazzi con un imperioso colpo di testa al 18'. A ventiquattro anni di distanza dall'ultimo titolo conquistato in Spagna nel 1982, l'Italia è di nuovo Campione del Mondo in un periodo difficile per il calcio italiano e per la stessa Federazione che, dopo le dimissioni da parte del presidente Carraro, a seguito degli episodi legati al caso Moggi, è guidata dal Commissario straordinario prof. Guido Rossi.

Storia del calcio- il primo scudetto


Di stanza al porto, i fondatori si dilettano con l'attività ludica che tanto ricorda loro la madrepatria; fino a quando capiscono che anche in Italia quello sport può diventare una cosa seria come lo è oltremanica. Nel 1897, quindi, scrivono nel loro statuto la regola che ammette l'ingresso di soci italiani, così rafforzando una compagine che già mostrava di giocare un buon calcio. E nel 1898, esattamente l'8 maggio, vincono il primo campionato italiano. Nulla a che vedere con lo spossante - non solo per i giocatori, ma anche per chi lo segue - torneo dei giorni nostri: il primo scudetto, infatti, viene cucito sulle maglie del Genoa al termine di una sola giornata di partite che coinvolgono quattro squadre.


Il Genoa campione d'Italia 1898

Oltre ai campioni, vi partecipano la già citata Internazionale Torino, il Football Club Torinese e la Ginnastica Torino. I match si giocano, ça va sans dire, all'ombra della Mole, precisamente nella Piazza d'Armi e con quella vittoria il Genoa costituisce la prima, gloriosa eccezione alla regola del fattore campo (non è da tutti giocare contro tre squadre cittadine e imporsi sempre). Per quanto rudimentale e pionieristico, quel campionato segna comunque un primo tentativo di unificazione sportiva della penisola.
Fino ad allora, infatti, ogni team giocava tornei cittadini (oltre Genova e Torino, se ne disputavano anche a Milano). Dal 1898 tuttavia, grazie anche alla spinta propagandistica della Federazione Italiana del Football - antenata dell'attuale Federazione Italiana Gioco Calcio, meglio conosciuta come Figc - il campionato prende piede. Nascono nuove società che faranno la storia del calcio italiano: la Juventus (1897), il Milan (1899), la Lazio (1900), e tutte partecipano ad un torneo che cresce sempre più e che vede dominare su tutte le squadre il Genoa, vincitore di sei delle prime sette edizioni (l'unico intermezzo è del Milan nel 1901).
Il football, dunque, è realtà consolidata anche in Italia. Aumentano le giornate di campionato, e nell'autunno del 1909 si inaugura il primo torneo a cavallo di due stagioni (lo vincerà nel maggio 1910 l'Internazionale, da intendersi però come Inter). Fino alla Grande Guerra, ad ogni modo, il calcio conserva, dietro un'organizzazione che si fa sempre più capillare, caratteri quasi dilettanteschi. Non mancano, tuttavia, nomi di una certa importanza. Tra tutti Virgilio Fossati, capitano dell'Inter e della Nazionale (della quale parleremo oltre), che muore in trincea sul Carso. Né mancano personaggi da romanzo picaresco, qual è stato Franco Bontadini.
Anch'egli giocatore dell'Inter (ala destra), occulta una laurea in medicina per poter combattere da soldato semplice, e non da ufficiale, nel battaglione Val Cismon del VII Alpini. Tornato a casa sano e salvo, molti anni dopo si uccide, cinquantenne, in seguito a una delusione d'amore. Il vero personaggio del calcio nostrano, tuttavia, arriva con l'avvento del fascismo. Si chiama Leandro Arpinati, podestà di Bologna, presidente della Federazione calcistica dal 1926 al 1932. Uomo di temperamento sanguigno, è squadrista fedele al duce pur riuscendo a mantenere una certa indipendenza e una salutare distanza dai gerarchetti che ne contestano le iniziative. In particolare, quella di aver voluto accanto a sé come segretario tale Giuseppe Zanetti, che l'ambiente vicino a Mussolini reputava inidoneo in quanto non iscritto al Pnf (Partito Nazionale Fascista) ma che Arpinati riesce comunque a imporre sostenendo di aver bisogno, come collaboratore, di un galantuomo competente e non di un fascista.
Sotto il "duomvirato" Arpinati-Zanetti il calcio italiano conosce due innovazioni di notevole portata. La prima è l'introduzione del girone unico, denominato "all'italiana" (definizione tuttora in uso in campo internazionale). Niente più spareggi né finali, ma partite organizzate secondo un calendario che coinvolge diciotto squadre di tutta la penisola e premia quella che alla fine totalizza più punti. La prima edizione si tiene nel 1929-30, e la vince l'Inter (che nel frattempo, in ossequio al nazionalismo del regime, fa precedere il proprio nome da un altro, Ambrosiana).
Il girone unico esprime compiutamente l'ideologia accentratrice del regime: "era lo sbocco logico - ha scritto Gian Paolo Ormezzano, giornalista e storico del calcio - di una ramificazione degli interessi per il calcio in tutt'Italia e della necessità di ricondurre questa ramificazione a una manifestazione centrale, disputata senza troppe cineserie di formula". La seconda innovazione concerne gli "oriundi", i figli di italiani emigrati in Sud America - dove, grazie ai fenomeni migratori, il calcio attecchisce suscitando le febbrili passioni tipiche dei latinoamericani - che si fanno strada nelle squadre argentine e uruguayane.
Il regime non vede di buon occhio l'interesse delle società italiane mostrano per questi stranieri, che subito le autorità politiche si affrettano a ribattezzare "rimpatriati". La loro classe, il loro modo di giocare è tuttavia grandioso, misto di tecnica e di quella fantasia che è elemento genetico di tutti i calciatori che provengono dalle sponde sudamericane. Le società scatenano quindi una caccia allo straniero (in senso buono, ovviamente) non dissimile da quella, frenetica, che contagia i presidenti delle società di oggi. Ma il regime impone dei limiti: non più di due oriundi per squadra. Nella difesa dei valori nazionalistici Arpinati è il più ferreo, tanto che si oppone con veemenza all'ingresso di stranieri in Nazionale.
Le massime autorità, però, fiutano vento di successi, molto più facili da raggiungere impiegando i talenti sudamericani, e ne ammettono l'impiego tra gli "azzurri" malgrado le proteste delle Federazioni argentine e uruguayane, che si vedono saccheggiare le riserve di campioni. Veniamo, quindi, a parlare di Nazionale. Il debutto di una prima squadra che riunisse i migliori calciatori italiani risale al 15 maggio 1910, in una partita disputata contro la Francia all'Arena di Milano. È un successo clamoroso: 6 a 2 in favore dell'Italia, in casacca bianca.
La divisa costituita da maglia azzurra e bermuda bianchi (in onore ai colori dei Savoia) verrà infatti adottata nel 1911, in una partita contro l'Ungheria. E sempre l'Ungheria è la squadra che affronta la nostra nazionale nella sua seconda partita, che si risolve in una "Caporetto" calcistica: 6 a 1 per i magiari, mossi - si dice - da una irresistibile furia patriottica dovuta alla libertà di impiegare in campo calcistico il nome "Ungheria" e di poter quindi staccarsi, almeno sotto il profilo sportivo, dall'egemonia asburgica (a rigor di logica politica, gli ungheresi avrebbero dovuto militare nella nazionale austriaca).
Al di là dei primi incontri e delle vicende sul campo, parlare dei primi anni della Nazionale significa parlare soprattutto di un uomo, Vittorio Pozzo. Ne diventa l'allenatore - anzi, commissario unico - nel 1924, in occasione delle Olimpiadi parigine. "Pozzo aveva del calcio un concetto austero e da buon ufficiale degli alpini concepiva la squadra come un plotone che doveva obbedire ai suo ordini - ha scritto di lui Indro Montanelli - . Era anche giornalista. Ma a noi colleghi dava del lei, un po' per alterigia tutta piemontese, un po' perché affrontava la sua missione con piglio sacerdotale.
Parlare con lui di calcio era come confrontarsi sulla Bibbia col cardinal Martini. Lo ricordo a Belgrado, sul finire degli anni Trenta, ospite del nostro ambasciatore. Una semplice visita di cortesia, alla vigilia di una partita con la Jugoslavia. Eppure Pozzo riuscì a presentarla come un'occasione storica e lasciò intendere che dall'esito di quella sfida sarebbero dipese anche le future relazioni diplomatiche tra i due paesi". Un uomo, comunque, che saprà bilanciare una concezione militaresca del calcio con la capacità di far della sua squadra una famiglia, portandola a vincere due campionati mondiali consecutivi, nel 1934 e 1938.
Storia del calcio
Come nasce il football




Un ibrido che, abbiamo visto, si estingue due mesi più tardi e dalle cui ceneri sorgono il rugby e il football come noi li conosciamo. Quest'ultimo, nel tempo, si arricchisce di nuove leghe - intese come assemblee nazionali di club: quella scozzese (1871), quella gallese (1875), quindi l'irlandese (1880) che, quarantuno anni più tardi, si trasferirà da Londra a Dublino, divenuta capitale della Libera Repubblica d'Irlanda. Sempre nel 1871 si inaugura un torneo che tuttora gli inglesi stimano più importante dello stesso campionato per club: la coppa d'Inghilterra.
Nata per iniziativa di un gruppo di redattori del giornale Sportsman, la coppa viene conquistata per la prima volta dal club dei Wanderers (i Vagabondi), che il 16 marzo 1872 sconfiggono per 1 a 0 gli ufficiali del genio (Engineers) davanti a poco più di duemila persone. Ma l'istituzione più importante che prende vita durante quei primi, pionieristici anni della storia del calcio è l'International Board: istituito nel 1886, è un comitato di esperti cui è demandato il compito di stabilire e aggiornare le regole del nuovo sport.


Un'istituzione che tuttora gode di ottima salute: è dai suoi uffici, per esempio, che a metà degli anni Novanta (del ventesimo secolo, s'intende) è promanata la regola che vieta al portiere di raccogliere con le mani un retropassaggio del difensore, obbligandolo a giocare il pallone solo con i piedi. Sul finire del secolo XIX, insomma, il football inglese è una creatura dalla fisionomia ben definita, e questa sua immagine comincia a fare il giro d'Europa. In Italia giunge agli inizi dell'ultimo decennio.
Volendo fissare una data ufficiale, si può pensare al 1891, anno di fondazione dell'Internazionale Football Club. Che, si badi bene, non è da confondere con Internazionale di Milano, da tutti conosciuta e da molti amata con il nome di Inter, che verrà creata nel 1908 da una costola del Milan.


L'Internazionale in discorso è invece un club torinese in cui, con encomiabile spirito democratico, militano alcuni aristocratici guidati dal duca degli Abruzzi e dal marchese Ferrero di Ventimiglia e i dipendenti di una società commerciale che tratta articoli di ottica.
Il titolare è tale Edoardo Bosio, torinese di origine svizzera, gran viaggiatore. Con ogni probabilità - ché le notizie a riguardo sono incerte, e si procede per induzioni - i frequenti viaggi d'affari lo portano spesso in Inghilterra, dove assiste agli incontri tra i club e s'innamora di questo nuovo sport. Che non esita a portare in Italia, dove però si afferma anche grazie agli stessi inglesi. A Genova, infatti, uno drappello di sudditi di Sua Maestà fonda, nel 1893, il Genoa Cricket and Athletic Club, il più antico tra i club ancora in attività.

Storia del calcio - 200 anni prima di Cristo
Le origini del calcio




Circa duecento anni prima di Cristo, in Cina, le gente è solita divertirsi giocando a tsu-chu, cioè "colpendo col piede (tsu) una palla di pelle imbottita in vario modo (chu)". In Giappone, più o meno nella stessa epoca, si pratica il kemari: due formazioni da otto uomini si affrontano con l'obiettivo di spedire una palla, ovviamente per mezzo di calci, in uno spazio delimitato da alberi.
Nell'antica Europa, invece, è in voga uno sport a metà tra gli odierni calcio e rugby: i greci lo chiamano episkyros, i romani harpastum. La prima notizia ufficiale sulla versione latina di questo sport risale al 276 d.C.; precisamente, ad un incontro che vede di fronteggiarsi un gruppo di legionari, di stanza in un villaggio della Britannia, e un drappello di giovanotti locali. Vincono i "padroni di casa", così fondando la regola del "fattore campo", in ossequio della quale la squadra che gioca in casa parte favorita per la vittoria. Ma a determinare il successo dei Britanni contribuisce anche la loro esperienza in un'attività sportiva che gli storici della materia considerano, all'unanimità, la vera antenata del moderno gioco del calcio, l'hurling.
Il termine, probabilmente di origine scandinava, deriva dal verbo "to hurle", colpire. La palla, ovviamente; tuttavia, è data notizia di qualche occasione in cui, al posto della sfera d'ordinanza, si prendeva a calci il cranio mozzato di qualche velleitario conquistatore o quello di un tiranno detronizzato.


Tanta crudeltà trova conferma nel carattere estremamente violento dell'hurling, gioco che attirava nelle contrade britanniche i peggiori gaglioffi del tempo, che si dividevano in squadre talvolta costituite da centinaia di componenti e che non si facevano sfuggire l'opportunità di darsele di santa ragione, sfogando tutta la loro aggressività con lo scopo - spesso secondario - di conquistare terreno spingendo il pallone con i piedi.
Dall'hurling prendono piede varianti "nazionali": quella francese della soule, che diversamente dalla versione inglese contempla l'obiettivo di far passare la palla attraverso un'area delimitata da due pali; quella toscana del "calcio fiorentino", commistione rinascimentale tra la veemenza anglosassone, espressa nell'ardore con il quale le contrade di Firenze si affrontavano in campo, e le regole transalpine, tra cui quella importantissima del "traguardo" in cui spedire la palla.
Osservando la distribuzione dei ruoli all'interno di ogni compagine, è possibile istituire un paragone con i tempi attuali. Se oggi, infatti, impazzano moduli quali il 4-3-3, il 3-5-2, il cervellotico 3-4-1-2 (con quell'uno di cui non è chiaro se sia centrocampista o attaccante, con il risultato che spesso non "entra in partita" e costringe i suoi compagni a un doppio lavoro), il modulo in voga nel Quattrocento può sintetizzarsi nella combinazione 4-5-3-15. I primi quattro si definiscono "datori innanzi", con il compito di difendere il proprio "traguardo"; i cinque sono gli "sconciatori", antichi centrocampisti; tre sono i "datori a dietro", deputati al rilancio dell'azione (contropiedisti, diremmo oggi); infine, i quindici "innanzi" nel ruolo di attaccanti.
"Squadre votate all'offensiva", commenterebbero gli odierni giornalisti sportivi. Ulteriore conferma, diciamo noi, dell'accanimento con cui i contendenti di allora interpretano quello sport: le risse in campo sono elemento costante di ogni partita, e non è raro che qualcuno sul terreno di gioco ci lasci anche la pelle. Il calcio - che in Inghilterra abbandona progressivamente l'appellativo di hurling per assumere quello a noi noto, football - è dunque affare pericoloso e per gente di cattive intenzioni.
Lo afferma anche William Shakespeare nel Re Lear, quando mette in bocca al sovrano e al suo fido duca di Kent parole non esattamente compiacenti nei confronti del maggiordomo di una delle figlie di Lear, Osvaldo, definito "impostore, bastardo, animale, schiavo, mascalzone e abietto giocatore di football". Il carattere così cruento di questo sport è comunque destinato a scomparire - meglio, a trasferirsi dal campo alle tribune -.
Un aiuto viene dalla definizione di regole sempre più precise, che impongono limiti all'azione indiscriminata dei giocatori, non più liberi di raggiungere il loro "traguardo" con ogni mezzo, anche il più violento. Strutturato con maggior precisione, il football assume nel tempo i connotati olimpici del rispetto dell'avversario. E della cavalleria, che nasce ufficialmente nel 1681 quando il re d'Inghilterra, dopo aver assistito ad una partita tra i suoi servitori e quelli del conte d'Albemarle, premia questi ultimi per la bella vittoria conseguita.
Regole e "fair play" non bastano, tuttavia, a conferire al calcio lo status di attività professionistica: bisognerà attendere altri due secoli, sempre in Inghilterra, perché un giocatore di football possa essere inteso come un lavoratore. Nel 1885, infatti, viene fondata la lega professionistica inglese, vale a dire l'assemblea delle società che fanno del calcio la loro attività principale, potendo contare sugli incassi, sui premi-partita, sulle scommesse, sul dovere di far quadrare i propri bilanci.
Insomma, su tutto quello che tuttora costituisce il nucleo della vita di club quali Arsenal, Liverpool, Manchester United e affini. Quella data, tuttavia, non va intesa come l'anno di nascita del calcio moderno, per il quale bisogna fare un salto indietro di una ventina d'anni e tornare al 1863. Per la precisione all'8 dicembre, giorno in cui in seno a una federazione di undici club londinesi si verifica la scissione tra cultori del rugby e del calcio.
Il 26 settembre dello stesso anno, alla Taverna dei Frammassoni di Londra (Free Masons Tavern), i rappresentanti delle suddette undici società si erano riuniti per dar vita a un'assemblea con lo scopo di stendere un regolamento definitivo che unificasse in un unico sport le regole del rugby e quelle del calcio. Ne nasce una disciplina complessa, un ibrido tra la ruvidezza rugbistica degli sfondamenti e delle galoppate palla in mano e l'eleganza, anch'essa in verità ruvida, dell'obbligo di manovrare la sfera coi soli piedi e di dover limitare al minimo i contatti fisici con l'avversario.


Diego Armando Maradona
Genio e sregolatezza

Maradona nasce il 30 ottobre 1960 nel quartiere povero di Villa Florito, nella periferia di Buenos Aires, dove trascorre i giorni di bambino giocando per strada e dimostrando già sprazzi di talento definito unanimamente divino.
La sua carriera inizia nell'argentinos Junior, per poi proseguire, sempre in Argentina, nelle fila del Boca Juniors (squadra della quale Maradona è sempre rimasto accesissimo tifoso).
Esordisce a livello internazionale con la nazionale giovanile argentina (con cui vincerà il titolo mondiale nel 1979) e da li a poco verrà inserito nella nazionale maggiore.
Dopo il mondiale del 1982 in Spagna, viene ingaggiato dal Barcellona e approda finalmente sul palcoscenico del calcio europeo.
In spagna Diego gioca per due stagioni, collezionando prestazioni memorabili e un terribile infortunio (Goicoechea, difensore dell'Athletic Bilbao, gli frattura la caviglia sinistra e gli rompe i legamenti con un'entrata assassina).
Nel 1984 l'evento che segna la svolta nella vita calcistica di Maradona: il 30/06/1984 firma un contratto con il Napoli.
La città partenopea adotta subito Dieguito a suo idolo e il calore dei tifosi viene ricambiato dall'amore che sempre Maradona manifesterà nei confronti di quella che diventerà la sua "seconda patria".
Con il Napoli Diego raggiunge i traguardi più prestigiosi: 2 scudetti, 1 coppa italia, 1 coppa UEFA e una supercoppa italiana.
E' il periodo più felice di Maradona: ai successi sul campo si affiancano una condizione fisica e tecnica all'apice e una fama inarrivabile nel mondo, in questo periodo Diego E' il calcio.
Nel frattempo trascina la nazionale Argentina alla vittoria nei mondiali del 1986 in Messico: Maradona disputa un torneo strepitoso segnando nella stessa partita due goals(che sarebbero rimasti nella storia) contro l'Inghilterra, uno di mano (la cosiddetta "mano di Dio") e il secondo dribblando avversari come birilli e incantando tutti gli appassionati del mondo.
Negli anni novanta arriva il declino della sua stella: nel 91 viene trovato positivo ad un controllo antidoping in campionato e di conseguenza squalificato per 15 mesi.
Scontata la squalifica Diego rifiuta di tornare al Napoli: l'idillio con la città è rimasto sempre lo stesso, ma i rapporti con la società sono franati.
Chiede perciò di essere ceduto e nel 1992 torna nella Liga spagnola con la maglia del Siviglia.
L'anno seguente (1993) sembra veder rinascere Diego: ritorna in nazionale e aiuta l'Argentina a superare l'Australia nello spareggio per la qualificazione ai mondiali americani del 94.
Ma ormai la sua carriera ha imboccato il viale del tramonto e tutti gli sportivi soffrono per come questo grande campione riesca a farsi del male: è il giugno del 1994, Stati Uniti d'America, campionato mondiale, Diego risulta positivo al test antidoping ed è cacciato dalla manifestazione.....
Tornerà ancora sui campi da gioco (nel 95 col Boca), ma si tratterà solo dell'ombra del campione che fu.
Una cosa risalta nitidamente agli occhi di tutti gli sportivi: tanto era grande in campo Diego, quanto era debole nella vita.
Le cronache recenti parlano di un uomo imbolzito, grasso, che fatica a rimettere nei giusti binari una vita rovinata dalla droga, ma chiunque abbia visto un suo goal, una punizione, un dribbling.... o un semplice sorriso che regalava senza protervia, non può dimenticare il "Pibe de Oro", forse il più grande fantasista del mondo, di certo l'ultimo grande giocatore tutto "talento e fantasia" in un calcio già divenuto troppo tattico e fisico..

UN BREVE RIASSUNTO DELLA VITA DI MARADONA
30/10/1960: Diego Armando Maradona nasce a Lanús, nella periferia di Buenos Aires. E' il quinto degli otto figli di Diego Maradona e Dalma Salvadora Franco.
5/12/1970: Inizia a giocare nelle Cebollitas, la squadra giovanile dell'Argentinos Juniors.
20/10/1976: Gioca la prima partita nella Serie A argentina con la maglia dell' Argentinos Juniors contro il Talleres de Córdoba, dieci giorni prima del suo sedicesimo compleanno, entrando all'inizio del secondo tempo con la maglietta numero 16 al posto di Giacobetti.
14/11/1976: Segna il suo primo gol, contro Lucangioli, portiere del San Lorenzo di Mar del Plata.
27/02/1977: Debutta con la maglia della nazionale argentina contro l'Ungheria.
Maggio 1978: L'allenatore della nazionale Cesar Menotti non lo convoca per il mondiale del 1978 ritenendolo troppo giovane.
2/6/1979: Segna il suo primo gol in nazionale, a Glasgow contro la Scozia.
7/9/79: Guida l'Argentina alla vittoria della Coppa del Mondo giovanile in Giappone segnando anche un gol su calcio di punizione nella finale vinta 3-1 contro l'Unione Sovietica.
19/2/1981: Si trasferisce al Boca Juniors.
22/2/1981: Debutta nel Boca vincendo 4-1 contro il Talleres de Córdoba e segnando due reti.
16/8/1981: Vince il campionato con il Boca Juniors.

4/6/1982: Firma per il Barcellona .
24/9/1983: Subisce l'infortunio piú grave della sua carriera quando Andoni Goicoechea, difensore dell'Athletic Bilbao, gli frattura la caviglia sinistra e gli rompe il legamento.
30/6/1984: Firma per il Napoli.
5/7/1984: Presentazione ai tifosi del Napoli -foto!- in una festa indimenticabile.
22-29/6/1986: Segna prima il celebre gol con la "Mano di Dio" e poi realizza un gol meraviglioso nella vittoria per 2-1 contro l'Inghilterra nei quarti del mondiale. Guida praticamente da solo l'Argentina fino al trionfo contro la Germania Ovest per 3-2 nella finale.
10/5/1987: Guida il Napoli alla vittoria del primo scudetto (foto della squadra).
17/5/1989: Vince la Coppa UEFA col Napoli, che ottiene la prima vittoria in una competizione europea.
Agosto-Settembre 1989:Trascorre due mesi in Argentina, tornando in Italia solo dopo l'inizio del campionato.
29/4/1990: Vince il secondo scudetto col Napoli.
8/7/1990: Porta l'Argentina alla finale del mondiale a Roma, partita persa per 1-0 con la Germania Ovest a causa di un calcio di rigore molto dubbio.
17/3/1991: Viene trovato positivo a un controllo antidoping e viene squalificato per 15 mesi dai campi di calcio.
1992: Rifiuta di tornare al Napoli dopo la squalifica e chiede un trasferimento. Viene ingaggiato dal Siviglia.
4/10/1992: Debutta con la maglia del Siviglia, perdendo 2-1 contro l'Athletic Bilbao.
10/10/1993: Lascia il Siviglia per il Newell's Old Boys in Argentina. Perde la prima partita per 3-1 contro l'Independiente.
31/10/1993: Ritorna a giocare in nazionale a Sydney contro l'Australia per gli spareggi di qualificazione al mondiale USA 1994. Pareggia 1-1 e il gol argentino è propiziato da una grande giocata di Diego.
17/11/1993: L'Argentina con Maradona come capitano batte 1-0 l'Australia e si qualifica per il mondiale.
2/12/1993: Gioca la sua ultima partita con il Newell's contro l'Huracán.
Giugno 1994: Gioca due partite con la nazionale argentina nel mondiale americano segnando anche un gran gol contro la Grecia, prima di essere squalificato per uso di efedrina, sostanza non consentita dalla FIFA.
3/10/1994: Prima esperienza da allenatore: viene ingaggiato dal Deportivo Mandiyú di Corrientes. Due mesi dopo rinuncerá all'incarico.
6/5/1995: Seconda esperienza da allenatore: viene ingaggiato dal Racing. Quattro mesi dopo dará le dimissioni.
7/10/1995: Ritorna a giocare nel Boca Juniors nella partita Boca-Colón 1-0. I tifosi del Boca gli preparano un'accoglienza indimenticabile nello stadio della "Bombonera".
1996: Continua a giocare per il Boca Juniors.
24/8/1997: Ritorna in gran forma a giocare per il Boca Juniors, segnando nella partita vinta 4-2 contro l'Argentinos Juniors. Viene di nuovo trovato positivo, nonostante ci siano dei sospetti su un possibile complotto.
25/10/1997: Gioca la sua ultima partita col Boca, vincendo 1-2 in casa del River Plate.
30/10/1997:Decide di ritirarsi dal calcio proprio il 30 ottobre, giorno del suo 37esimo compleanno.
1998: Non gioca la coppa del mondo, ma va in Francia per commentare le partite per una televisione argentina.
Novembre 1998: Torna per la prima volta in Italia dopo oltre sette anni.
1999: Approva con entusiasmo la realizzazione di un film sulla sua vita e partecipa al film "Tifosi"

GRANDE TORINO PER SEMPRE!
Storia affettuosa e romantica di una squadra di calcio unica e irripetibile




Celebrare e non commemorare. Sono passati cinquant'anni dall'ultimo viaggio del Grande Torino. Cinquant'anni durante i quali, il susseguirsi delle vicende non ha intaccato il mito di una squadra che ha scritto un pezzo di storia del calcio italiano. Una squadra che fece sognare migliaia di persone in un momento difficile per il Paese, una formazione capace di vincere cinque scudetti consecutivi, trionfare in Coppa Italia e stabilire una serie di record a tutt'oggi ineguagliati. Un gruppo di uomini che sono diventati leggenda, rendendo il Filadelfia l'unica dimora della squadra di oggi e di domani. Il ricordo ancora intatto nella mente di chi ha vissuto quei momenti irripetibili, viene trasmesso ai giovani che vivono il «granata» non solo come il colore di una maglia, ma come un pezzo di storia cucita addosso. Una filosofia di vita, una fede in cui credere e trovare la forza per continuare a lottare giorno dopo giorno, per riportare il Torino agli antichi fasti, senza lacrime ma mantenendo vivo il ricordo. Ci riteniamo privilegiati. Noi abbiamo un passato da ricordare e, soprattutto, da onorare: il Grande Torino.

dalla presentazione
Il Presidente del Torino Calcio
MASSIMO VIDULICH

«Facci sognare». Negli stadi si trovano striscioni come questo. E' la preghiera che il tifoso, in un misto di fede e speranza, non esita a rivolgere ora alla squadra del cuore, ora al campione celebrato che ne veste la maglia. Sovente l'appello resta tale, nudo e solo, senza seguito. Smunta, laconica scritta che campeggia su un telo, scosso non dal misterioso brivido del fantastico di cui tutti i sogni sono intrisi, ma soltanto dall'aria che investe la gradinata. Invocazione spezzata al cospetto di una realtà dura, il più delle volte ben lontana da tanto ottimismo. Eppure, ci sono occasioni in cui succede il contrario; in cui è la realtà a cedere, ad inchinarsi alla supplica che si alza dagli spalti. Il sogno, allora, prende forma, dispiega poco a poco la sua ammaliante potenzialità e spalanca le ali ad un volo, l'unico voluto dal tifoso: quello della vittoria.
La squadra del Grande Torino rappresentò uno di questi momenti, espresso però alla potenza ennesima. Quando cioè l'invocato sogno non si disperde al vento dello stadio, ma si realizza e con una tale forza da divenire addirittura incubo, quasi trasformandosi nell'opposto di sé. E' stato questo, forse, il «peccato» della squadra granata, dal destino stesso non perdonato: rapire al mondo del sogno la sua levità, per costringerla a farsi carne concreta, immagine quotidiana e palpabile. Il Grande Torino, ovvero la condanna a vincere sempre. Nell'assurda impossibilità dell'impresa, il segno di una nemesi tremenda, eppure unica soluzione, di un epilogo disperato e brutale: la fine di Superga.
Uno schianto la cui eco ancora rimbalza nelle colline attorno alla città, ancora ondeggia tra i rami degli alberi che furono testimoni, ancora agita le corde di cuori sempre meno numerosi che vissero il momento. Ma anche chi, volgendo lo sguardo alla vetta del colle, non visse né vide, ma soltanto ha saputo per il racconto di altri; ebbene, anche in lui questa eco terribile non esita a creare un rimbombo irresistibile, ineludibile. Per questo la leggenda della grande squadra mai è andata incontro a ridimensionamenti; anzi, ha tratto ulteriore vigore dal correre del tempo e a cinquant'anni di distanza la sua forza è integra, salda, intoccata. Per questo, e per l'impenetrabge magia che sta dietro a tutte le cose formidabili della vita, col Grande Torino si può ancora sognare. Dentro la sua parabola trova ancora spazio la fantasia, al cospetto delle sue imprese ancora rinasce l'epica delle gesta che non hanno storia... e ancora e ancora. Per questo, per tutto questo, oggi più che mai spontaneo viene da dire: Grande Torino, Grande Torino per sempre!

Johan Neeskens

Il personaggio più noto della grande Olanda degli anni 70, quella del calcio totale, è sicuramente Crujff, passato alla storia per la sua indiscussa capacità di essere personaggio anche fuori dai campi di gioco.
Non bisogna dimenticare, però, un altro grande campione che, forse più dello stesso Crujff, incarnò al meglio lo spirito di quella mitica formazione orange: Johan Neeskens.
Egli sapeva interpretare al meglio quell'universalità di ruolo predicata al tempo in Olanda: vero jolly a tutto campo, Neeskens era giocatore completo e continuo, capace di adattarsi a giocare in qualsiasi zona del campo.
Talento precoce (esordisce in nazionale all'età di 19 anni), durante la sua carriera vestì le maglie di Haarlem, Ajax, Barcellona e Cosmos.
Nato nel 1951, visse la sua stagione più imprtante proprio nel 1970 quando, oltre all'esordio in nazionale, partecipò con l'Ajax alla conquista dello scudetto (il primo di tre che quel favoloso Ajax vincerà consecutivamente).
L'anno seguente iniziano anche le vittorie in Coppa Europa (quella che sarà poi Coppa Campioni e oggi Champions League): anche in questo caso, l'Ajax, ne vincerà tre consecutivamente.
Grazie alle sue caratteristiche fisiche ed alle grandi doti di incontrista, Neeskens diventa uno dei più grandi difensori europei, ma nella stagione 1973/74 (quando parte Crujff, destinazione Barcellona) si ricicla trequartista-attaccante. In questo ruolo segnerà numerosissime reti (17 in 49 presenze in nazionale ad esempio, giocando una buona parte di queste gare da difensore!), esibendosi in conclusioni altamente spettacolari e molto efficaci.
Neeskens è la dimostrazione vivente dellafilosofia olandese dell'epoca: se sei un buon giocatore, non importa in che ruolo gioco, farai comunque bene.
Durante i mondiali del 1974, Neeskens è uno dei giocatori più ammirati: l'Olanda va in Germania (paese organizzatore) e dà spettacolo.
In quell'anno i tulipani sono la squadra che esprime il miglior calcio al mondo, ma sfortunatamente non basta. E non bastano nemmeno le 5 reti (capocannoniere della manifestazione) che Neskeens realizza: in finale l'Olanda è piegata dai tedeschi, che le impongono un 2-1.
Dopo i mondiali tedeschi si riforma la coppia Neeskens-Crujff: entrambi nel Barcellona, saranno determinanti nella conquista di 1 coppa di Spagna e della Coppa Coppe.
Nel 1978 tentò nuovamente l'assalto alla coppa del Mondo, ma gli orange furono nuovamente sconfitti in finale, questa volta dagli argentini (anche loro padroni di casa!).
La sua carriera termina nelle fila dei New York Cosmos, la stessa squadra in cui terminò la carriera Pelè.
In tempi di super-specializzazioni, dove un tornante si lamenta se deve giocare al centro e viceversa, non sarebbe sbagliato andare a rivedere le partite di questo straordinario giocatore, che seppe imporre la sua classe e il suo talento in ogni ruolo ove venisse impiegato.
Michel Francois Platini
Il più grande artista del calcio mondiale dei primi anni Ottanta

Michel Francois Platini nasce il 21 giugno del 1955 all'ospedale Genibois di Joeuf, un paese fino a quel giorno sconosciuto. Michel è il secondo figlio di una coppia di ristoratori di origine italiana, conosciuti per la loro bravura nel cucinare la pasta.

Michel Platini

Il giovane inizia a formare la sua tecnica calcistica seguendo il papà Aldo, capitano della squadra del Jovincenne, "spiando" gli allenamenti e perfezionando alla fine di questi i suoi tiri, dribbling, punizioni… Viene, per la sua bassa statura, soprannominato il "Ratz", ma continua intanto ad allenarsi, fino ad arrivare nella prima squadra del club di Joeuf , e riesce a segnare un goal contro una delle squadre più forti del torneo, il Jarny. Nel giro di pochi mesi, il nome di Platini è sulla bocca dei migliori selezionatori; nel 1972 viene invitato ad uno stage di selezione. Il campioncino di Joeuf risulta, però, dalle visite del medico del Metz, soffrire di insufficienza cardiaca e viene perciò rifiutato. Platini lavora duro e decide di tentare con la squadra rivale del Metz, il Nancy; raggiunge in centro di formazione di questa squadra il 22 giugno del 1972. E' con questa compagine che si affaccia al calcio professionistico; è il titolare della squadra di serie C ed è selezionato come dodicesimo uomo per le partite di serie A. La prima apparizione nella serie A francese è nella stagione 1972/73, quando il Nancy affronta il Nimes; debutta come ala sinistra. A soli 18 anni, passa da questo ruolo a quello di regista del Nancy. Ma è il 1976 l'anno del suo debutto sulla scena internazionale: segna il suo primo gol in nazionale il 27 marzo al Parco dei Principi, contro la Cecoslovacchia; in quello stesso anno partecipa ai Giochi Olimpici di Montreal e vince la Coppa di Francia con la sua squadra, il Nancy, segnando il gol della vittoria contro il Nizza. Nel 1977, l'atleta preferito dalle francesi dà alle sue ammiratrici un enorme dispiacere: il 27 dicembre si sposa con una studentessa di economia, figlia, come lui, di genitori italiani. Da questo matrimonio nasceranno due bambini. In questo stesso anno si classifica al terzo posto all'assegnazione del Pallone d'oro; è solo un avvertimento a tutti i fortissimi calciatori europei: lo vincerà per tre anni consecutivi, 1983/84/85.
Nel 1978, Michel Platini partecipa ai Mondiali di calcio Argentina 78, offrendo un saggio della sua immensa classe, ma non tutti i suoi compagni di squadra sono all'altezza del grande numero dieci e la Francia è rapidamente eliminata. In quel mondiale la Francia è eliminata dai padroni di casa dell'Argentina, poi campioni del mondo, ma in quella partita "le Roi" segna il suo primo gol in coppa del mondo.
Il 31 maggio del 1979, il RE del calcio piazzato, così chiamato per le sue micidiali punizioni, gioca la sua ultima partita con il Nancy, segnando due gol contro il Lille, nello stesso anno firma il contratto con " il sogno di tutti i bambini", così Platini ama descrivere il Saint-Etienne ai giornalisti. Sul contratto, elaborato nella sua dimora di Nancy con Roger Rocher, presidente di Saint-Etienne, è indicato che le maglie saranno fornite e lavate dal club... Dopo aver letto queste righe Michel non ha potuto trattenersi dal telefonare a sua moglie e dall'esclamare, scherzando: "Vedi, da oggi non dovrai più lavare le mie maglie!". Nel luglio '79, Platini inizia il suo primo allenamento con la mitica maglia verde; rispetto agli anni del Nancy, dove giocava con un gruppo di amici, non ha molti contatti umani anzi è molto colpito dalla freddezza dei giocatori.


Freddezza che vince in quel 7 Novembre nella partita contro il PSV Eidhoven; i giocatori del Saint-Etienne, guidati dal loro numero 10, infliggono un severo 6 a 0 ai loro avversari. Il campo dei "Verdi" è in ebollizione e scoppia di gioia quando il pubblico, per la prima volta, si mette a scandire: "Platini, Platini...". Nel 1981, Platini ottiene per la prima volta il titolo di campione di Francia in occasione dell'ultima partita di campionato contro il Bordeaux (2 a 0); è l'autore delle due reti. Il 18 novembre, la Francia incontra i Paesi Bassi per l'ultima partita di qualificazione per il mondiale spagnolo. I "Bleus" devono assolutamente vincere per poter giocare la loro seconda Coppa del Mondo consecutiva. Hidalgo, il selezionatore, è al centro delle critiche dopo cinque sconfitte in sei partite. Al 52° minuto, l'arbitro, Garrido, offre ai francesi un calcio di punizione ben piazzato. Platini, maestro in quest'esercizio, tira contro il muro degli olandesi, ma il difensore Peters respinge di mano la palla. Garrido accorda immediatamente una seconda chance al capitano francese che, come d'abitudine, bacia delicatamente la palla e con un tiro interno del piede destro inganna il portiere Van Breukelen con un pallonetto; partita vittoriosa che spedisce i Tricolori in Coppa del Mondo. Nel 1982, guida la Francia al quarto posto nel Mondiale spagnolo, si rivela uomo partita nella tremenda semifinale persa contro la Germania Ovest a Siviglia. Un fatto insolito si produce durante la partita di primo turno contro il Kuwait. Dopo una rete francese, assolutamente valida, l'Emiro kuwaitiano scende in campo e contesta il goal che viene annullato dall'arbitro. I giocatori francesi restano di sasso! Alla fine vincono la partita 4 a 1 con una rete di Platini. Dopo aver brillato durante la competizione spagnola, il numero 10 della Francia viene ingaggiato dalla Juventus, scelto da Gianni Agnelli per dare un po' di "fantasia" al gioco. Michel Platini entra alla Juventus per 880 milioni di Lire, per due anni. Alla firma del contratto, il francese insiste su un solo punto: restare disponibile al 100% per la nazionale francese. Nella stagione 1982/83, quella dei primi passi nel Calcio italiano, del "Francese", così soprannominato per il suo stile "di classe", non si apprezza il vero Platini, non sono momenti facili. La difesa italiana è dura e rigorosa e Michel trascina delle lesioni che si è procurato durante il Mondiale. Le prime partite non sono belle. In Coppa Campioni, nel 1983, dopo aver battuto i polacchi di Lodz (2 a 0 all'andata, 2 a 2 al ritorno), la Juve va ad Atene, il 25 aprile, per disputare la sua prima finale europea dopo dieci anni, contro l'Amburgo. Una vittoria potrebbe salvare la stagione dei piemontesi. Alcuni giorni prima, sfugge loro di poco lo scudetto, vinto dalla Roma. Per novanta minuti, Platini gioca in avanti, dietro, al centro, ma non serve a niente. La Juventus perde (1 a 0). In questa fine d'anno, il nuovo numero 10 dei Bianconeri si consola con la Coppa Italia ed il titolo di miglior giocatore d'Europa: vince il suo primo "Pallone d'Oro". Il 1984 è l'anno della rivincita; con la Juventus ottiene la sua prima incoronazione europea nella finale della Coppa delle Coppe contro l'Oporto (2 a 1). Vince ancora il "Pallone d'Oro"; nello stresso anno vince anche il campionato italiano considerato il più difficile del mondo, ed è capocannoniere (83/84/85). I tifosi della Juve impazziscono per il nuovo re. Ma il 1984 non è ancora finito; non ancora sazio, il leggendario calciatore francese si aggiudica con la Francia, il Campionato Europeo, disputato nella sua amata terra, dopo la terribile semifinale con il Portogallo (battuto solo ai supplementari), si passa anche in finale contro la Spagna, per 2 a 0. Il 1985, è un altro anno carico di successi, ma nello stesso tempo pieno di tristezza. Il 29 Maggio, è suo il rigore che porta la Juventus sul tetto d'Europa, vince la Coppa dei Campioni, ma della serata allo stadio Heysel di Bruxelles, più di tutto si ricorda la tragedia: morti provocati da scontri tra le due tifoserie e dalla frana di una parte dello stadio che travolse decine di appassionati ultras. Michel Platini conserva molti ricordi del 1985.


Ottiene per la terza volta il titolo di miglior cannoniere del campionato, ma ciò che colpisce di più è che viene eletto per la terza volta consecutiva "Pallone d'Oro" europeo (un record!). Questo triplice trofeo lo avvicina all'apice della gloria. È adulato dai suoi fan ed ammirato dagli altri. La sua fama supera le frontiere e raggiunge la leggenda del calcio con Di Stefano, Pelé e Beckenbauer; è proprio così ha i numeri per essere chiamato FUORICLASSE.
Nel 1986, dopo la vittoria a Tokyo della Coppa Intercontinentale, si aggiudica il suo secondo scudetto con la compagine bianconera e gioca il suo terzo Mondiale in Messico; è stata la sua Francia ad eliminare l'Italia, campione in carica, ma della Francia 86 si ricorda solo la bellissima partita vinta nei quarti di finale contro il Brasile. Il 17 maggio 1987, dopo una partita contro il Brescia allo Stadio Comunale di Torino, Michel Platini, annuncia di volersi ritirare dal calcio giocato. Un mese più tardi lascia anche la nazionale francese, dopo aver collezionato 72 presenze. Nello stesso anno, crea la "Fondazione Michel Platini" di cui è il presidente. Struttura creata per i tossicodipendenti, per aiutarli ad uscire dal tunnel della droga. Nel 1988, il 23 marzo, un anno dopo la sua ultima partita nella Juventus, Platini organizza la sua partita d'addio allo stadio Marcel Picot di Nancy. Per la prima volta Pelé, Maradona, Beckenbauer, Tardelli, Neeskens, Keegan e Boniek, Zoff portano gli stessi colori. Platini rivolge un ultimo "au revoir" alla Francia con la maglia blu, bianca e rossa sulle spalle. Quattro mesi dopo, il giovane pensionato viene chiamato per assumere la funzione di vicepresidente dell'AS Nancy, poi chiamato nel novembre del 1988 alla guida tecnica della nazionale francese, ma la mancata qualificazione agli europei del 1992 ed il susseguirsi di polemiche spinsero l'eroe francese a lasciare l'incarico per diventare Presidente del comitato organizzatore dei mondiali di Francia 1998. Ai titoli ottenuti da questo straordinario campione manca soltanto quello di Campione del Mondo con la nazionale francese, ma, nonostante ciò, si può largamente affermare che è stato il più grande calciatore francese di tutti i tempi e uno tra i più grandi della storia del calcio mondiale. Aveva piedi d'oro che sapevano fare di tutto e quella sua simpatica faccia tosta unita ad una grande sportività gli hanno permesso una stupenda carriera. Platini ha segnato in tutti i modi: destro sinistro, colpi di testa, era un giocatore di calcio completo, ma quello che tutti ricordano di più erano le leggendarie punizioni, conosciute appunto come punizioni alla PLATINI.
Rombo di tuono Gigi Riva
Un mito del calcio italiano

Gigi Riva è considerato da molti esperti del calcio
come il più grande attaccante italiano del dopoguerra.
Rombo di tuono ha rappresentato il mix ideale che deve caratterizzare un grande cannoniere: forza, velocità, tecnica e carattere lo hanno reso un personaggio amato da tutti gli appassionati di calcio. Diciottenne, esordisce in serie C con il Legnano per poi essere ingaggiato dal Cagliari nel 1963.
Nella squadra sarda rimane per tutta la carriera, nonostante i più grandi club italiani abbiano con insistenza cercato di accaparrarselo. Il grande sinistro di rombo di tuono fa uscire il Cagliari dall'ombra, fino a vincere uno storico scudetto, unico per i sardi, nel 1970.
Nello stesso anno, vince la classifica dei cannonieri del campionato italiano, già vinta nel 67 e nel 69.
In Sardegna gioca 13 campionati consecutivi, disputando ben 289 incontri con 155 reti; è un'ottima media, se si considerano i numerosi infortuni patiti dal campione.
La sua fede al Cagliari lo ha reso una bandiera, il suo carattere e la sua serietà un esempio per i più giovani. In nazionale gioca 42 partite, segnando 35 gol (2 più di Meazza) e contribuendo al successo italiano ai Campionati Europei del 1968.
Il sogno mondiale nel 1970 in Messico è cancellato in finale dal Brasile di Pelè, dopo che, in semifinale,

Gigi Riva in nazionale

un grande Riva contribuisce allo spettacolare 4 a 3 sulla Germania.
Gigi Riva, insieme a Piola e Meazza, è stato il più grande attaccante italiano: il suo gioco è caratterizzato da una prorompente esuberanza fisica, che gli è valsa il celeberrimo soprannome da parte di Gianni Brera: Rombo di tuono. Il triennio 67/70, oltre ad essere stato il più titolato, è stato anche quello più travagliato per Riva: frattura del perone sinistro (in nazionale nel 1967) e frattura del perone destro (1970 in nazionale, ma dopo i mondiali).
Termina la carriera nel 1976, in seguito ad un altro incidente di gioco (l'ultimo match il 01/02/1976 Cagliari-Milan 1-3). La fedeltà di Riva ad un'unica squadra ha fatto sì che tra i grandi campioni sia uno dei meno titolati, ma questo non toglie nulla al suo valore: rimane uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi. Dopo un periodo di presidenza del Cagliari, Riva approda nello staff della nazionale, dove tuttora svolge il ruolo di team-manager.

Storia del calcio- gli anni 30


Gli anni Trenta del calcio italiano sono anni di gloria. Nel breve arco del quadriennio compreso tra il '34 e il '38, la nazionale italiana guidata dal "sergente" Vittorio Pozzo domina nelle due competizioni più importanti dell'epoca: il Campionato mondiale e le Olimpiadi. Alle quali vanno aggiunte due coppe Internazionali, che arrivano nel 1930 e nel 1935.
La prima è conquistata battendo a Budapest, col risultato di 5 a 0, la fortissima Ungheria. Mattatore della partita è Giuseppe Meazza, soprannominato "balilla", che sigla tre reti. E' dotato di una classe sopraffina, che sfodera sin dalle prime escursioni, praticamente bambino, su un campo da calcio. Per l'esordio in una partita ufficiale, con l'Inter, Meazza non dovrà attendere l'età adulta: a soli diciassette anni debutta in prima quadra. E' il 1927, e gli adolescenti di allora sono tutti "balilla". Così infatti lo appella un dirigente della squadra milanese che contesta all'allenatore, il magiaro Weisz, la decisione di far debuttare nella massima serie un giocatore certamente bravo, ma ancora inesperto: "Adesso facciamo giocare anche i "balilla"", commenta polemico. Ma quel ragazzino gli darà torto.
Grazie a lui, l'Ambrosiana Inter - come accennato nel precedente articolo - vince il campionato per club del '30, il primo a girone unico. E sempre grazie a lui, la nazionale s'imporrà all'attenzione del mondo vincendo praticamente tutto quel che viene messo in palio negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Tra gli azzurri, però, Meazza può contare sull'apporto di un altro campione, che con il "balilla" costituirà la coppia d'oro di quegli anni eroici. Si chiama Silvio Piola, gioca da centravanti e fa così bene il suo mestiere da raggiungere il titolo di recordman assoluto (in Italia) in fatto di realizzazioni: 395 gol in 24 anni di carriera, che conclude a ben 41 anni, età da matusalemme per un attaccante, solito alla pensione intorno ai 32 anni.
Insieme, fanno della nazionale di Pozzo la compagine più temuta a livello, se non mondiale, certamente europeo. L'impossibilità, per l'Italia, di affermare il proprio valore a livello planetario non è dovuta tanto alla presenza di una squadra sudamericana nettamente superiore all'"undici" azzurro, quanto alla distanza fisica che l'Oceano Atlantico pone tra i paesi latinoamericani e l'Europa, che impedisce un completo confronto tra le relative scuole calcistiche. Lo si capisce se si guarda alla prima edizione dei Mondiali, giocati in Uruguay nel 1930 e vinti dalla nazionale dello stesso Paese: di tredici squadre partecipanti, solo quattro sono europee (Jugoslavia, Francia, Romania e Belgio); le altre nove, ovviamente, americane (oltre al Paese ospite, giocano Stati Uniti, Argentina, Messico, Bolivia, Brasile, Cile, Perù e Paraguay).
Rimangono nel "vecchio continente", oltre all'Italia, l'Inghilterra, e cioè la squadra degli inventori del calcio, e le tre esponenti di quella scuola del football che passerà alla storia


Storia del Calcio - EMOZIONI

Città del Messico, giugno 1986. Allo stadio "Azteca", la nazionale di calcio inglese affronta quella argentina in una partita dei quarti di finale del campionato del mondo. Il punteggio è di 1 a 1: ad un primo gol irregolare di Diego Armando Maradona - saltando per anticipare il portiere Shilton, "el pibe de oro" tocca la palla con la mano e la spedisce in rete - segue il pareggio di Gary Lineker, attaccante dei "leoni d'Inghilterra", che con quella realizzazione si assicura la vittoria nella classifica dei cannonieri di quell'edizione del mondiale. Bloccate sulla parità, le squadre si studiano come due schermitori. Fino al momento in cui Maradona - allora considerato il più forte tra i calciatori in circolazione - estrae dal suo repertorio un vero colpo di fioretto.
Conquista la palla a centrocampo, danza una "veronica" (cioè evita un giocatore piroettando sulla sfera e portandola avanti prima con un piede e poi con l'altro) e comincia una corsa infinita verso la porta difesa da Shilton. Sei giocatori inglesi lo affrontano invano, quasi ipnotizzati dal quel brutto anatroccolo che infila una finta dietro l'altra mantenendo incollato il pallone al suo piede sinistro. Giunto in area di rigore, con tre difensori alle spalle come mastini sulla preda, Maradona fa partire un rasoterra che infila la palla sotto il fianco del portiere e la deposita con dolcezza in rete. Con ogni probabilità, è il gol più bello della storia del calcio.
Una storia che, come quella dell'uomo, è anch'essa fatta di personaggi e battaglie, meno cruente - anche se non prive di vittime, grazie alla stupidità che talvolta si accomoda sugli spalti - ma non meno intense o emozionanti. Una storia antica, le cui prime tracce si perdono in un tempo remoto.
Italia-Germania 4-3
La partita del secolo




Il 19 giugno 1970 resterà una data indimenticabile nella storia del calcio: allo stadio Azteca di Città del Messico veniva giocata una partita che per intensità, qualità, emozioni e capovolgimenti può essere considerata la "madre di tutte le partite"!
Pensateci bene: cosa vorreste vedere in una partita di calcio? Gol? Capovolgimenti di fronte? Giocatori che corrono e lottano gettando il cuore oltre l'ostacolo?Bene, Italia-Germania rappresenta tutto questo e anche di più.
Siamo ai mondiali messicani del 1970, il Brasile parte col favore dei pronostici, l'Italia non ha brillato nel girone di qualificazione (due pareggi a reti inviolate con Israele e Uruguay e una vittoria di misura sulla Svezia) e dopo essersi sbarazzata agevolmente dei padroni di casa nei quarti (4-1), si trova di fronte i lanciatissimi tedeschi. La Germania viene, infatti, da 4 brillanti vittorie ( contro Marocco, Bulgaria, Perù ed Inghilterra) e viene pronosticata vincente sugli azzurri.
Intanto in Italia l'opinione pubblica si divide: è la staffetta tra Rivera e Mazzola l'argomento caldo. C'è chi vorrebbe l'abatino subito in campo, mentre un'altra parte dell'opinione pubblica è schierata con Mazzola e la sua maggiore esperienza.
In semifinale il Ct (Valcareggi) ripropone in attacco Mazzola e la scelta sembra dargli ragione: la squadra parte subito con un atteggiamento aggressivo e non sembra risentire del dualismo fra i due giocatori di punta della nostra squadra.
Dopo 8 minuti letteralmente scatenati da parte dei nostri, arriva il gol: è Boninsegna a sbloccare il risultato.
La partita va avanti con continui rovesci di fronte, con gli italiani che cercano il gol della sicurezza ed i tedeschi a rincorrere il pareggio.
Mancano pochi secondi alla fine della partita, gli italiani sono ormai convinti di avere la finale in pugno: ma come una doccia fredda arriva il pareggio tedesco. Schnellinger segna una rete che per galvanizza la Germania e gela gli azzurri.
E' qui che la partita lascia i binari del semplice spettacolo sportivo per percorrere quelli della leggenda.
E' il sesto minuto del primo tempo supplementare quando, grazie ad un malinteso della nostra difesa, Muller trova la via del gol: siamo sotto 2-1 e gli azzurri in campo appaiono distrutti.
Ma c'è un calciatore italiano che non ha nessuna intenzione di gettare la spugna: è Rivera, che tre minuti dopo la rete di Muller, batte una punizione verso Riva. Il terzino tedesco entra male e sbaglia il tempo dell'intervento, spalancando la via del gol a Burgnich: è il 2-2.
E sempre Rivera da il "la" all'azione del terzo gol italiano: lancio a Domenghini, cross di quest'ultimo per Riva, tiro e rete: 3-2 nel giro di pochi minuti gli azzurri sono passati dall'inferno al paradiso.
Ma questa straordinaria partita aveva ancora emozioni da regalare all'estasiato pubblico messicano e ai milioni di spettatori televisivi.
Beckenbauer gioca con un braccio fasciato lungo il corpo, stringe i denti e guida in avanti i suoi: i tedeschi prendono esempio dal loro capitano e impiegano le energie residue in un rabbioso attacco alla porta azzurra.
Al 5' del secondo tempo supplementare Muller riporta ancora in parità la partita: 3-3 e i messicani sugli spalti sono conquistati dalle due squadre, dai 22 in campo che lottano ancora su ogni pallone anche se sono passati più di 110 minuti di gioco!
La Germania attacca, crede nel risultato, ma in contropiede l'Italia completa la sua partita capolavoro: Boninsegna parte in progressione e salta Schultz, palla a Rivera che, smarcato dal passaggio si trova faccia a faccia con Maier (portiere tedesco), finta di corpo e palla depositata in rete di piatto: Italia-Germania 4-3!!
Dicevamo del pubblico: se capitate in Messico, fate un salto allo stadio di Città del Messico e potrete osservare la grande lapide di marmo che i messicani fecero deporre a immortale memoria degli eroi dell'Azteca.
Eroi, si, perchè i giocatori delle due nazionali diedero vita quella sera di giugno ad uno spettacolo divino, conquistando il cuore di milioni di appassionati nel mondo.
E anche se gli italiani vinsero la gara, l'onore va equamente diviso con i loro avversari, che diedero sul campo prova di coraggio e orgoglio pari a quella degli azzurri.
L'avventura mondiale degli azzurri finì malamente in finale contro il Brasile di Pelè.......... ma questa è un'altra storia!

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